L’espressione inglese work-life balance è impiegata per indicare un più sano equilibrio tra gli aspetti inerenti all’attività lavorativa (le condizioni attuali di lavoro e le prospettive di carriera) e la vita privata (il tempo dedicato a se stessi e alla propria famiglia). Da tempo le istituzioni europee si sono occupate del tema e di recente la Commissione europea lo ha rilanciato, ritenendolo un fattore chiave per la costruzione di un’Europa sociale (cfr Riggio G., «Il pilastro europeo dei diritti sociali», in Aggiornamenti Sociali, 6-7 [2017] 516-517). Tra i vari aspetti inerenti al work-life balance, la Commissione ha da tempo scelto di privilegiarne uno: quali strumenti possono essere di supporto a una persona impegnata nella cura di altri familiari (di solito i figli e/o i genitori) affinché non sia costretta a compiere – o subire – scelte che la sfavoriscono nell’ambito lavorativo? La situazione appena descritta riguarda soprattutto le donne. Le statistiche a disposizione per il 2015 mostrano infatti che a livello europeo il tasso di occupazione delle donne con un figlio minore di sei anni è inferiore dell’8,8% rispetto alle donne che non hanno figli piccoli (in alcuni Paesi il divario è superiore al 30%). Dover assistere un familiare non autonomo è la ragione dell’inattività per quasi il 20% delle donne che non lavorano, a fronte del 2% degli uomini. Inoltre le donne, in particolare con figli, che lavorano a tempo parziale sono molte di più degli uomini. Questa disparità di genere nell’occupazione si riflette anche a livello di retribuzione e di trattamento pensionistico, oltre a produrre una perdita stimata in 370 miliardi di euro all’anno (cfr Eurofond, The Gender Employment Gap: Challenges and Solutions, 2016).
Per «porre rimedio alla sottorappresentanza delle donne nel mondo del lavoro e [...] sostenere la loro carriera grazie a migliori condizioni per conciliare impegni di lavoro e privati», la Commissione ha sottoposto una proposta di direttiva (COM[2017] 253 final, in <http://ec.europa.eu/social>) al Parlamento europeo e al Consiglio. La soluzione avanzata dalla Commissione mira a «migliorare l’accesso ai meccanismi per conciliare attività professionale e vita familiare», proponendo misure che accrescano il coinvolgimento degli uomini nella cura familiare. L’iniziativa interviene in un quadro giuridico frammentato. A livello europeo non esiste una normativa per il congedo di paternità o per motivi di assistenza; mentre l’auspicata revisione del congedo di maternità, disciplinato con una direttiva nel 1992, è stata definitivamente accantonata nel 2015 per divergenze in seno al Consiglio. Inoltre, molte legislazioni nazionali non prevedono congedi di paternità o parentali (fruibili da entrambi i genitori) retribuiti, favorendo di fatto lo svolgimento di tali compiti da parte delle donne, che rinunciano al lavoro o accettano di lavorare part-time.
Le misure proposte toccano le varie figure di congedo (paternità, parentale e per l’assistenza, cfr riquadro) e la disciplina dei lavori flessibili, ossia il telelavoro, l’orario flessibile o ridotto e il lavoro in condivisione. A completare la strategia pensata dalla Commissione vi sono azioni non legislative per assicurare la tutela giuridica ed economica dei lavoratori e l’impiego dei fondi europei per sostenere i servizi di welfare rivolti ai minori o agli anziani.
Gli interventi in questo campo sono indubbiamente complessi se pensati a livello europeo. Vi sono rilevanti differenze tra gli Stati membri su questi temi quanto a legislazione, funzionamento del mercato del lavoro e servizi assicurati dal welfare, senza dimenticare le profonde diversità culturali tra i Paesi in cui sono ancora forti gli stereotipi maschilisti e quelli in cui da tempo si sono affermati modelli più paritari. Un’innovativa disciplina in questo campo deve anche tenere in conto le specificità proprie di ogni settore lavorativo e le realtà geografiche in cui dovranno essere applicate (ad esempio, regioni densamente popolate o meno, aree ricche o povere). Lo strumento giuridico della direttiva offre la flessibilità necessaria per far fronte a questa complessità: da un lato fissa uno standard minimo generale; dall’altro lascia liberi gli Stati membri di adattare le indicazioni europee alla propria realtà e di completarle in meglio dove possibile. La normativa europea vale pertanto come uno stimolo ai legislatori nazionali, che possono però avere un approccio ben più ampio e integrato sulla conciliazione tra vita professionale e privata. A livello nazionale si possono, in effetti, proporre iniziative che non si limitino al pur centrale capitolo del miglioramento della condizione lavorativa femminile, per abbracciare altri aspetti di questo tema, come ad esempio la salvaguardia dei tempi personali, quando l’uso della tecnologia permette ad alcune figure professionali di lavorare in qualsiasi luogo e a qualsiasi ora (cfr Tintori C., «Condividere per conciliare», in Aggiornamenti Sociali, 6-7 [2014] 445-452).