Comandante
Enrico Maisto
Italia 2014, Documentario, Durata: 70 min.
Le due vite di Felice Esposito – meccanico del quartiere milanese della Barona – e Francesco Maisto – giudice di sorveglianza nella stessa città – vengono raccontate attraverso la lente della loro amicizia da un testimone particolare, Enrico Maisto, amico del primo e figlio del secondo. Il loro percorso, che attraverso il periodo degli anni di piombo procede su direzioni diversissime, costituisce il cuore di Comandante, opera prima del ventisettenne regista milanese, premiata all’ultima edizione del Milano Film Festival. Quali sono le eredità dei padri? Quali sono le tracce presenti nelle nuove generazioni di un’epoca che appare lontana e distante? In quali forme è possibile instaurare un dialogo politico con gli estremismi? Questi sono alcuni dei moltissimi interrogativi che Comandante sviluppa a partire da uno sguardo personale e fortemente autobiografico, in cui la voce del regista interroga direttamente i suoi personaggi, chiamandoli in causa come testimoni e protagonisti di un’epoca.
La pellicola si apre nel buio di una stanza a Cuba – il registro del film sembra quasi di un noir postmoderno, come ha ben notato il critico Luca Mosso su La Repubblica –, dove Felice si sta vestendo per andare a una festa. La voce fuori campo del regista introduce il filo d’Arianna che guiderà l’intera visione: «L’idea che mi ero formato di te era quella di un personaggio uscito dai libri di García Marquez, un personaggio che si muoveva in un mondo molto diverso da quello legale e istituzionale in cui i miei genitori magistrati mi avevano cresciuto. All’inizio ho cercato quest’immagine. Sapevo che avevi militato dentro Lotta continua, che sognavi la rivoluzione, ma non avevo idea che fossi arrivato tanto vicino alla lotta armata, né che questo avesse a che fare con mio padre».
L’indagine di Enrico Maisto parte dal crocevia tra un documentario e un film familiare e cerca di andare a fondo su un passaggio molto particolare della vita di suo padre, nei primi anni ’80, quando, in qualità di giudice di sorveglianza, era entrato nel mirino di alcuni gruppi armati di estrema sinistra. In quel periodo, pochi mesi dopo l’omicidio del collega e amico Guido Galli, avvenuto il 19 marzo 1980, Francesco Maisto riceve esplicite minacce di morte. A salvarlo da un possibile attentato sembra essere stato l’intervento di Felice Esposito, conosciuto frequentando il ristorante Mulino doppio, portando così Enrico, a oltre trent’anni di distanza, a chiedersi come sia stata possibile un’amicizia tra un giudice e un militante di Lotta continua durante la fase finale degli anni di piombo.
Proprio il punto di vista del film costituisce un primo aspetto di notevole interesse rispetto all’estremamente prolifica cinematografia, tra fiction, documentari e televisione, che ha raccontato il finire degli anni ’70. Enrico Maisto non è un testimone oculare di quegli anni, ne è semmai una conseguenza. La sua stessa esistenza, come mostrano i timidi filmati di famiglia che si alternano in alcune scene finali del film, restituiscono l’idea di una vita nata a partire dai gesti compiuti in quel periodo ( «Se non avessi salvato mio padre io non sarei più qui», sembra dire tra le righe il regista a Felice Esposito) e cresciuta alla luce di quei valori democratici messi in dubbio negli anni del terrorismo. In parallelo con quanto in letteratura è avvenuto con i lavori dello scrittore Giorgio Fontana, Enrico Maisto propone una sua visione su quegli anni, offrendo il proprio sguardo sulla retorica della rivoluzione e sugli eccessi di una generazione. «Alcuni discorsi oggi mi sembrano incomprensibili – dirà in un passaggio del film –, fanno parte di un periodo storico che non ho vissuto e verso il quale ritorno continuamente con un misto di fascino e repulsione».
Fascino e repulsione che si traducono in uno stile di regia estremamente rigoroso, che tende ad affidare alla voce narrante dello stesso regista la funzione di guida in un mondo confuso e distante, che non si restituisce mai allo spettatore nella sua unitarietà. Guardare un film come Comandante, nonostante sia dotato di una grande ricerca visiva (con ammiccamenti ai generi cinematografici e alle principali direzioni del documentario contemporaneo), porta comunque lo spettatore e il critico a leggerne con attenzione le sfumature scritte (recitate dal regista) per comprenderne lo sguardo e apprezzarne la distanza critica. Maisto sembra infatti volersi inserire nella storia dei due protagonisti come terzo personaggio, offrendosi come contrappunto contemporaneo alle testimonianze di Felice e Francesco e ricollegando sempre un passato lontano di cause a un presente di effetti.
Lo sviluppo del film risponde a tale direzione, lasciando a ogni personaggio la possibilità di raccontarsi attraverso i propri tempi e le proprie idiosincrasie. I due protagonisti, Felice e Francesco, non si incontrano mai davanti alla macchina da presa, sembrano vivere, distanti, due vite parallele. Felice ci viene mostrato nella sua quotidianità fatta di riunioni di partito, lunghi viaggi notturni con il suo carro-attrezzi e proteste di piazza. Francesco nella sua quotidiana attività giudiziale. A emergere è così anche la figura del giudice di sorveglianza, uomo dello Stato che vigila nelle carceri sull’esecuzione della pena nel rispetto dei diritti dei detenuti.
Oltre alla fotografia di un’epoca, Enrico Maisto sembra tracciare anche un itinerario di ricerca di una figura paterna. Novello Telemaco sulle tracce di due padri, delinea da un lato il ritratto di Felice, genitore simbolico, di un immaginario avventuroso e rivoluzionario, dall’altro quello del padre Francesco, che non sembra essersi mai raccontato troppo. «Verso i tredici anni ho smesso di chiamarlo papà« – dice Enrico durante il film – «Quando mi ha regalato il libro del suo maestro, Igino Cappelli, nella dedica si era firmato “Franco”». Il documentario stesso diventa così strumento di un riavvicinamento, davanti alla macchina da presa, di un padre e di un figlio. I due, tra un’intervista e l’altra, sembrano riprendere a dialogare in maniera più orizzontale, laddove all’inizio del film la figura del giudice sembrava imporsi con maggiore fermezza e autorità. Il film acquisisce una forza commovente proprio nel suo registro più familiare, dove la semplicità dei gesti quotidiani (come il preparare un caffè la sera) si alterna a momenti di forte levatura politico-morale, con lunghi dialoghi sul senso e sulla giustezza della detenzione carceraria. La ricerca di un “nome del padre” (quel termine “papà” a cui si arriverà quasi al finale del film) si fonde con una ricerca nella generazione dei padri, tra cattivi maestri e idealisti sognanti.
Ma se Felice e Francesco non si incrociano mai nella stessa immagine cinematografica, il ponte tra i due personaggi è offerto anche da un irrinunciabile riferirsi, da parte di entrambi, a due principi condivisi: l’umanità dell’amicizia (essere amici è non crearsi barriere, dirà Francesco in una delle molte interviste) e l’irrinunciabile necessità della funzione dialettica che non si può e non si deve abbandonare, anche in circostanze drammatiche. Nel racconto delle riforme strutturali del carcere di San Vittore di Milano – la chiusura delle Bocche di Lupo, le celle sotterranee dove i detenuti erano tenuti in condizioni aberranti – Francesco Maisto apre proprio a un discorso sull’importanza del dialogo. «Io ho sempre creduto nella utilità della comunicazione e quindi nella dialettica, anche feroce, ma nella dialettica politica: le ragioni degli uni e le ragioni degli altri. Il limite invalicabile doveva essere quello della morte contro la vita, della violenza. A meno che non ci sia un popolo che si rivolta contro uno stato autoritario, dittatoriale, fascista. Non era ammissibile, non era ammissibile tanta violenza».
Comandante non ha mai un carattere unitario e schiva ogni forma propria del documentario d’inchiesta tradizionale, cercando invece di ricucire la sfera del pubblico e del privato. Non c’è nel film di Maisto il tentativo di arrivare a una risposta definitiva, che si fondi sull’esclusione, sullo schieramento come barriera invalicabile (Francesco nella legge, Felice al di fuori della legalità), ma il tentativo di attraversare i confini tra due mondi diversi. Le posizioni di Francesco e Felice sono molto distanti, eppure li lega un profondo senso di amicizia. Le parole conclusive del film, indirizzate a Felice, sembrano proprio sancire tale visione: «Quando sei costretto a schierarti da un lato o dall’altro della frontiera c’è qualcosa che va perso. Nella amicizia tra te e papà ho visto questa apertura della frontiera come necessità umana, al di là degli schieramenti. La frontiera rimane aperta, come l’immagine che un figlio insegue del proprio padre».
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