Clientelismo

Fascicolo: dicembre 2014
Chiedere una raccomandazione a una persona influente è una prassi normale, in alcuni luoghi addirittura necessaria, per avere un lavoro, superare un esame, ridurre i tempi di attesa per una prestazione medica.

Da parte sua, chi riveste un ruolo di responsabilità considera spesso legittimo esercitarla per favorire – a sua discrezione – quanti chiedono di essere privilegiati. Agendo così, raccoglie attorno a sé un seguito fedele che ne rafforza la posizione di potere: pratica, cioè, il clientelismo.

Soprattutto nell’ambito pubblico questo modo diffuso di concepire e gestire la funzione amministrativa, sia da parte dei titolari, sia da parte dei beneficiari, produce effetti negativi in termini di mobilità sociale, efficienza, sviluppo, motivazione alla cittadinanza attiva. In molti casi, poi, la richiesta e la concessione di un favore varcano la soglia del lecito e si trasformano in varie forme di reato penalmente sanzionabili. Il clientelismo, quindi, ha un forte impatto sociale perché induce a intendere e strutturare le relazioni istituzionali in modo ingiusto, basato non sul diritto, ma sull’arbitrio.

Guardando alla sua storia, in particolare alla vicenda delle origini, la Chiesa può offrire un contributo per riflettere sui fattori culturali soggiacenti al fenomeno e suggerire possibili vie di cambiamento.


Una comunità ideale

Negli Atti degli Apostoli viene descritta a più riprese la prima comunità cristiana di Gerusalemme, nelle relazioni interne fra i suoi membri e in quelle con gli esterni: Atti 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16. A partire da elementi storici, l’evangelista Luca – autore anche degli Atti – traccia un quadro ideale della vita comunitaria e lo consegna alle future generazioni di cristiani quale modello a cui tendere nell’edificare le singole Chiese. In questi brani la profonda comunione fraterna viene indicata come segno distintivo di quanti hanno creduto all’annuncio della resurrezione di Gesù predicata dagli apostoli e si sono radunati attorno a loro: hanno un cuor solo e un’anima sola (cfr riquadro).

Atti
4,32-35

32 La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. 33 Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. 34 Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto 35 e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

L’espressione usata da Luca non va interpretata in termini sentimentali, è piuttosto un riferimento all’amore dovuto a Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima prescritto dalla legge di Mosè (cfr Deuteronomio 6,5), che deve rendersi visibile e concreto nella vita comunitaria attraverso la condivisione dei beni: se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso […] non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso; anzi gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova (Deuteronomio 15,7-8).

Pertanto, Luca non sta descrivendo una realtà del tutto nuova, né sta proponendo un ideale di vita sconosciuto ai suoi ascoltatori. La sua intenzione è piuttosto di mostrare come la moltitudine dei credenti porti a compimento la legge dell’amore e realizzi nelle relazioni fra i suoi membri l’avvento del Regno in modo conforme alla predicazione di Gesù.

Infatti, il principale modello di riferimento per la prima comunità cristiana di Gerusalemme erano le sinagoghe, presso le quali esisteva un sistema di raccolta delle offerte per le necessità dei più bisognosi. Nel giudaismo si era venuta a creare una distanza fra la visione religiosa e la tradizione degli ebrei rimasti in Palestina e quelli che vivevano fuori, in diaspora, nel contesto ellenistico. Questi due gruppi avevano sinagoghe distinte.

Per i cristiani, invece, si trattava di far convivere in una stessa comunità i convertiti di origine ebraica, tanto palestinesi quanto ellenisti, e quelli di origine pagana. Ecco perché Luca non usa la parola fratello, che nel Deuteronomio indica solo quelli di un certo gruppo etnico e religioso (cfr ad es. Deuteronomio 17,15), ma credenti. Inoltre – e questo è l’elemento utopico – fa consistere la comunione non nel prestare o donare qualcosa, ma nel vendere i propri beni e metterli a disposizione di tutti, superando il concetto di proprietà privata.

Una comunità di questo tipo assomigliava di più a quelle degli esseni, gruppi di ebrei organizzati in forme di vita monastica che si separavano dal resto della società per mantenersi puri e poter osservare pienamente la legge. Per loro, però, la comunione dei beni era un mezzo di ascesi, serviva a non essere contaminati dalla mondanità, mentre per i cristiani descritti dagli Atti è un modo di rendere testimonianza al Risorto.

L’altro riferimento sociale e culturale di Luca è il mondo pagano, al quale non era sconosciuto l’ideale della comunione dei beni. Un proverbio greco diceva: «Fra gli amici tutto è comune» e Aristotele aggiungeva che «l’amicizia è uguaglianza» e consiste nell’essere «un’anima sola». Questi concetti si trovano anche negli scritti di Platone, di Cicerone e Diogene Laerzio, un filosofo del III sec. d.C., che li fa risalire a Pitagora (cfr DUPONT J., Studi sugli Atti degli Apostoli, Paoline, Roma 1971, pp. 865-887). In genere, però, non era l’amicizia a generare l’uguaglianza, ma la comunanza di interessi e l’appartenenza a uno stesso ceto sociale e culturale rendevano possibile l’essere amici.

Esistevano delle microsocietà, chiamate tiasi dai greci e collegia dai romani, basate sulla pratica della convivialità e della solidarietà fra membri provenienti da diverse classi sociali. Tuttavia in queste associazioni «la generosità dei benefattori instaura con i bisognosi un rapporto gerarchico da “padrone” a “cliente”, nel quale il debito verso il donatore è ripagato con l’onore che gli viene reso» (cfr MARGUERAT D., Gli Atti degli Apostoli, I, EDB, Bologna 2011, pp. 184-185).

Anche rispetto al mondo greco-romano, quindi, Luca evoca un riferimento culturale conosciuto quando dice fra loro tutto era comune perché avevano un’anima sola, ma non usa la parola amicizia nel descrivere le relazioni fra i membri della prima comunità cristiana, per non suscitare l’idea di rapporti clientelari. Non a caso, infatti, le donazioni di cui parla sono mediate dagli apostoli e non passano direttamente dal benefattore al beneficiario, come sembra avvenisse in un primo momento, stando al testo di Atti 2,42-48: chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti.


Dall’ideale al reale

Il quadro ideale della narrazione lucana si infrange quando scoppia una controversia a proposito della ridistribuzione dei beni raccolti come offerte (cfr riquadro).

Atti
6,1-6

1 In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. 2 Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. 3 Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico. 4 Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». 5 Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. 6 Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.

Anche questa prima comunità cristiana, dunque, corre il rischio di dividersi a causa di favoritismi che violano il principio dell’uguaglianza e della giustizia nelle relazioni fra i suoi membri e – fatto ancor più grave – contraddicono l’essere credenti, testimoni del Risorto.

Stando all’episodio che stiamo esaminando, la deriva verso uno stile di relazioni clientelari basata su fazioni e favoritismi è scongiurata grazie all’incrocio di due fattori.

Il primo è la protesta della parte ellenista che si vede sfavorita. Se, invece di esprimere il proprio malcontento e cercare una soluzione più adeguata per tutti, i danneggiati avessero cercato di ottenere vantaggi e privilegi analoghi a quelli dell’altro gruppo, avrebbero sposato la logica clientelare e contribuito a diffonderla. Ora, questo non era scontato, visto il contesto sociale e culturale circostante, da cui anche quei primi cristiani provenivano. Ma proprio perché la comunione dei beni e l’uguaglianza in quel tipo di comunità non dovevano basarsi sulla fratellanza o sull’amicizia, ma sulla fede, quella rivendicazione è la reazione più conforme al modo di vivere insieme nel nome del Risorto: ne va della credibilità e dell’identità dei credenti.

Il secondo è la presa di coscienza degli apostoli di fronte a quel malcontento. I Dodici si rendono conto che, se si dedicano a questo servizio di ridistribuzione dei beni, vengono meno alla loro vera missione, al mandato ricevuto da Gesù di predicare il Vangelo. Dal testo si evince che non sono consapevoli della contraddizione fra la preferenza accordata a una parte della comunità e l’esigenza evangelica di venire incontro al bisogno di tutti. Ad ogni modo prendono l’iniziativa, non lasciano crescere il malcontento al punto di non poterlo più governare e delegano volentieri parte della loro autorità a membri scelti da tutta la comunità, rinunciando saggiamente a essere allo stesso tempo i collettori e i gestori delle risorse.

Nascono così i diaconi, la prima istituzione della Chiesa – se si esclude quella degli apostoli risalente a Gesù stesso – con il compito di ridistribuire le risorse disponibili in modo equo e di risponderne davanti a tutti. Solo in seguito verranno collegati anche al servizio liturgico, com’è ancora oggi.

In realtà i fatti raccontati successivamente da Luca a proposito di Stefano e Filippo e i nomi dei primi diaconi – tutti di matrice greca – fanno capire che si trattava di predicatori dal ruolo simile a quello degli apostoli, punti di riferimento delle prime comunità dei cristiani provenienti dall’ellenismo. Inoltre, ne vengono nominati sette perché quello era il numero degli amministratori e dei giudici della città secondo la testimonianza dello storico Giuseppe Flavio: «i discepoli non fanno altro che riprendere delle istituzioni del giudaismo e applicarle anche all’interno della nuova variegata comunità» (cfr BIZZETI P., Fino ai confini estremi, EDB, Bologna 2008, pp. 136-141).


Vangelo e/è cultura

Inquadrati nel contesto biblico e nel panorama sociale e culturale dell’epoca della loro redazione, i testi lucani non presentano una comunità cristiana così innovativa nello strutturarsi, come potrebbe apparire a una lettura superficiale. Piuttosto è degno di nota come Luca descriva le relazioni fra i primi cristiani evocando quanto di meglio era stato concepito dal pensiero religioso e filosofico del suo tempo in termini di ideale di vita comunitaria e mostrando come l’adesione al Vangelo lo porti a compimento: è questa la dinamica dell’evangelizzazione.

Quando poi – come sempre accade – l’ideale si infrange contro i limiti insiti in ogni concretizzazione storica, Luca non nasconde la tensione, ma capisce l’importanza di raccontare il modo in cui viene affrontato e risolto il conflitto, più che fornire semplicemente la soluzione, di per sé non così originale. I modelli culturali di cui si serve, infatti, avevano anche risvolti pratici inaccettabili per i cristiani, come l’amicizia basata sulle relazioni clientelari, ma c’era il rischio che venissero adottati in quanto ritenuti normali ed efficaci a sopire la questione senza turbare lo status quo.

Se, quindi, la prima comunità cristiana non può non riferirsi al contesto da cui è nata e in cui vive, d’altra parte è anche in grado di rendersi alternativa e trasformarlo dall’interno. L’istituzione dei diaconi, infatti, manifesta una novità evangelica feconda anche per la cultura e le istituzioni del mondo circostante.

Il primo aspetto da sottolineare a questo proposito è il modo in cui avviene. Nasce da un moto di protesta da parte di chi subisce ed è danneggiato dalle relazioni di stampo clientelare: non è possibile superarle se sono accettate come prassi normale, a cui uniformarsi per ottenere vantaggi per sé a scapito degli altri. I responsabili della comunità, da parte loro, riconoscono il danno che ne deriva, perché curare la propria clientela li sottrae al dovere di esercitare l’incarico ricevuto a beneficio di tutti e crea malcontento e divisione. Infine, la soluzione istituzionale va concordata insieme e affidata a uomini capaci di custodirne il senso e la finalità.

Il secondo aspetto è il principio implicitamente affermato attraverso l’istituzione dei diaconi: la destinazione universale dei beni, che «debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità» (cfr Gaudium et spes n. 69 e MELLON C., «Destinazione universale dei beni», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2012] 164-168). La proprietà privata non è un diritto assoluto, ma subordinato e funzionale al bene universale, come dimostrano i primi cristiani che depongono il ricavato della vendita delle loro case e terreni ai piedi degli apostoli. Il loro gesto, inoltre, non è un’elemosina da usare a propria discrezione, ma condivisione. Queste risorse comuni, di conseguenza, non possono essere gestite in modo da trarne un vantaggio personale, perché sono un segno della grazia del Risorto, accessibile a tutti per mezzo della fede. Pertanto, a partire dal comune riferimento al Vangelo, la prima comunità cristiana afferma più in generale che escludere alcuni dalla ridistribuzione delle risorse pubbliche e privilegiare quelli della propria parte è inaccettabile, perché crea disuguaglianze e divisioni contrarie al principio della pari dignità di tutti gli esseri umani. Come indicato da Luca, la chiave di volta resta comunque la comunione – vissuta anche nel conflitto – fra gli Apostoli, cioè i responsabili della comunità, e i singoli membri, soggetti alla loro autorità, manifestata nel riconoscere e rifiutare quelle pratiche della convivenza che contraddicono nei fatti il comune statuto di credenti e testimoni del Risorto, ovvero l’uguaglianza fondamentale di tutti davanti a Dio. Infatti, l’istituzione dei diaconi – come ogni istituzione – non è da sola sufficiente a prevenire la formazione di clientele, né si presenta nuova rispetto al già esistente. Tuttavia, grazie al condiviso e irrinunciabile riferimento al Vangelo, essa esprime la volontà e la possibilità di istituire le relazioni secondo giustizia al di là degli interessi dei singoli, per il bene di tutti e affidarne la cura a uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, che di quel modo di vivere insieme sono la migliore espressione e garanzia.
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