Civic capitalism

Colin Hay, Anthony Payne
Polity Press, Cambridge 2015, pp. 148, € 14,50. Testo in lingua inglese
Scheda di: 
Fascicolo: febbraio 2017
Colin Hay e Anthony Payne, professori di scienze politiche presso lo Sheffield Political Economy Research Institute, hanno scritto Civic capitalism a partire da una serie di post pubblicati nel blog del loro centro universitario di ricerca e dai contributi e dalle reazioni che hanno suscitato nel mondo accademico. Il libro, che è pertanto il risultato di un processo di partecipazione collegiale, si suddivide in tre capitoli. Nel primo gli AA. mettono a nudo l’attuale liberalismo anglosassone, che permea la cultura contemporanea occidentale, fanno tesoro dei fallimenti e delle crisi strutturali all’origine dell’attuale congiuntura economica e formulano un modello di crescita alternativo. Successivamente è dato spazio agli interventi di dieci esponenti del mondo accademico, che dibattono le tesi avanzate, in un esercizio di critica costruttiva volta a evidenziare nella proposta sia elementi di fragilità sia di eccellenza. Infine, nell’ultima parte, gli AA. rafforzano il loro modello fornendo esempi e strumenti concreti, affinché esso si possa declinare efficacemente nell’attuale contesto politico ed economico.

Elemento metodologico centrale del volume è la volontà di non fermarsi a una mera analisi dell’attuale stagnazione in termini di crisi economica: ciò che viviamo oggi va oltre questa limitante etichetta, assumendo i caratteri di un’emergenza sociale, ambientale e politica. Infatti, gli AA. registrano una sconcertante disaffezione e una completa sfiducia verso la politica, una crescente disuguaglianza sociale, un’accelerazione del degrado ambientale, un inarrestabile deterioramento del settore creditizio, in difficoltà nel recuperare le erogazioni finanziarie concesse e, di conseguenza, nel concedere nuove linee di credito; a un livello più fondamentale, una visione della società dominata dagli egoismi dei singoli. Al capitalismo liberale, che si configura come una brutale e decadente corsa all’opportunismo politico-economico, è contrapposta una nuova formulazione caratterizzata dalla connotazione “civica”, perché al servizio dei cittadini. Quest’ultimi non sono più visti come semplici consumatori, elettori o individui che perseguono razionalmente ed egoisticamente la massimizzazione del profitto personale, ma vengono considerati collettivamente in una cornice di società democratica. «È tempo di chiedersi non cosa noi possiamo fare per il capitalismo, ma cosa questo può fare per noi» è il mantra che gli AA. ribadiscono continuamente, sollecitando il lettore a riflettere sull’orizzonte di senso delle loro proposte.

Risulta naturale, quindi, che il volume si orienti verso la promozione di uno sviluppo economicamente ed ecologicamente sostenibile, che ristabilisca una dimensione sociale e non soltanto tecnocratica nell’amministrazione dei beni pubblici: «La prima lezione che dobbiamo apprendere è il fondamentale sconcerto per la tecnocrazia, il managerialismo e la creazione di élite di esperti» (p. 12). Pertanto lo Stato, coerentemente col proprio mandato di garante di ultima istanza, deve assumere un atteggiamento interventista nei confronti dei mercati, per coordinarli e regolarli discrezionalmente secondo un principio di consistente precauzione: «Se il nostro fine è una giustizia sociale ed economica, questa deve essere imposta dallo Stato ai mercati in nostro nome» (p. 13). Questo principio rifiuta la concezione di autoregolazione e autoequilibrio dei mercati, ma si radica in quella ispirata dal premio Nobel Paul Krugman secondo cui la regolamentazione deve essere commisurata ai potenziali rischi dell’oggetto regolamentato. È quindi necessario che le autorità richiedano ampia e completa trasparenza alle istituzioni finanziarie sottoposte al loro controllo, imponendo loro inoltre di essere in grado di rispondere con flessibilità e dinamismo ai rischi derivanti dalla loro attività: «Dobbiamo adottare un presupposto contro l’innovazione finanziaria in assenza di una evidente e concreta compensazione anche in termini sociali» (p. 20).

Da queste considerazioni si evince la decisa critica degli AA. alla concezione liberista secondo cui le differenze che si creano a livello socioeconomico fra gli individui costituiscano un volano che favorisce l’innovazione e la produttività. Questa visione ha portato a una crescita instabile e alla deliberata contrazione del welfare pubblico, che fra le altre conseguenze ha visto la nascita di forme complementari e private di assistenza previdenziale. Con l’invecchiamento della popolazione e le stime decrescenti sul valore pro capite delle pensioni pubbliche, lo Stato è stato attratto dalla prospettiva di scaricare sui cittadini la responsabilità di provvedere ad assicurarsi le risorse economiche necessarie per il periodo in cui si sarebbero ritirati dal lavoro. La strada intrapresa da diversi cittadini è stata di investire nel mercato finanziario e immobiliare, ritenendo, erroneamente, che la sua crescita fosse costante e indefinita nel tempo. Questa convinzione ha aggravato la persuasione che le condizioni estremamente favorevoli di accesso al credito si mantenessero invariate e vi fosse un persistente equilibrio di bassa inflazione e relativamente bassi tassi d’interesse, condizioni che hanno costituito l’anticamera dell’esplosione delle bolle speculative di qualche anno fa.

Una svolta rispetto a questi scenari presuppone un’inversione di rotta nell’investimento di risorse nelle lucrose operazioni di intermediazione finanziaria e di attività creditizia a breve termine, che restano destabilizzanti per le prospettive di una riforma economica strutturale. Esemplificativo per gli AA. è l’abbattimento, guidato dalla politica, del costo di finanziamento nei settori strategici per favorire il rilancio di un piano industriale e infrastrutturale. Infatti, sarebbe auspicabile agevolare l’emissione di bond garantiti dallo Stato a sostegno degli investimenti che stabilizzano le esportazioni, creano occupazione e favoriscono una domanda interna slegata dal patologico ricorso al debito privato come unico volano per i consumi.

Un altro capitolo cruciale delle responsabilità del capitalismo è quello che riguarda l’ambiente, come evidenziato da numerosi studi accademici o di istituzioni internazionali, che riportano dati allarmanti sul cambiamento climatico, sulla perdita di biodiversità, sull’acidificazione degli oceani e sull’alterazione del ciclo dell’azoto, nei quali l’essere umano ha da tempo oltrepassato i livelli di capacità massima per la Terra. Unitamente alla veloce progressione verso il punto di saturazione nell’utilizzo dell’acqua e delle terre disponibili, ci viene consegnato un quadro preoccupante, che sollecita a reintrodurre una prospettiva civica nelle considerazioni fin qui svolte solo secondo la mera profittabilità economica.

Il conseguimento di questo programma, che si professa globale negli scopi e nelle forme per la sua attuazione ai vari livelli, è vincolato a un coordinamento sovranazionale che coinvolga i principali attori del contesto internazionale. Gli AA. auspicano che l’accesso alle risorse messe a disposizione dal Fondo monetario internazionale favorisca quegli interventi strutturali che, rifiutati in tempi di proclamata austerità per realizzare la riduzione del deficit, consentano invece di vincolare alla crescita i principali obiettivi di politica economica, scongiurando una corsa alla svalutazione della moneta.

Non da ultimo, quando si valutano queste politiche è fondamentale emanciparsi dalla semplice rilevazione del PIL, come parametro per stabilirne la buona riuscita o meno, e istituire una misura globale che si configuri come un indice di sviluppo economico sostenibile (SED). Su questo piano, gli AA. si limitano a suggerire l’inclusione di alcuni aspetti quali la qualità dei mezzi economici a disposizione dei cittadini, il loro grado di integrazione, la mobilità e la coesione sociale. Dietro questi suggerimenti si pongono alcuni interrogativi di fondo: come mettere sullo stesso piano in tempi di recessione i licenziamenti di massa con il ridimensionamento solidale del lavoro? Perché le politiche occupazionali non possono facilitare la partecipazione al ciclo economico e amministrativo dell’impresa da parte dei lavoratori che vi devolvono gran parte della propria vita?

L’interessante proposta contenuta in Civic capitalism non è certo esente da limiti. Fra le principali critiche, si delinea il tema della rappresentanza politica per le classi meno abbienti, che possiedono strumenti limitati per edificare una coscienza politica e un’organizzazione democratica capace di contrastare efficacemente il corporativismo neoliberale delle lobby e dei poteri forti precostituiti. Inoltre, una notevole minaccia alla cooperazione internazionale proviene dall’attuale processo di riconfigurazione degli equilibri internazionali, nel quale la crescente competitività ha comportato un’erosione del welfare sociale in favore di misure protezionistiche che mettono il proprio interesse economico sopra quello delle parti. Infine, i benefici della regolamentazione sono deliberatamente distorti quando si introducono farraginosi ed esorbitanti sistemi di regole, che rappresentano un potenziale ostacolo alla propria applicabilità (a titolo di esempio è citato l’atto di riforma del 2010 di Wall Street noto come Dodd-Frank, composto da 2.300 pagine). Tuttavia, è del tutto condivisibile la prospettiva degli AA. riguardo la necessità di alleviare la disuguaglianza sociale e promuovere una crescita sostenibile, che possono essere obiettivi conciliabili a patto di ribilanciare i rapporti fra Stato, mercati e cittadini.

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