Molte
religioni richiedono l’osservanza di precise regole alimentari,
proibendo in particolare di consumare alcuni cibi. La loro analisi (cfr
il contributo «Cibi vietati», pubblicato nel numero scorso) mostra come
la loro ragion d’essere sia di matrice identitaria, in rapporto alla
necessità dei gruppi religiosi di marcare la propria differenza dalle
religioni e dalle usanze circostanti. Anche nella Bibbia i confini di
purità e impurità vengono così definiti come la possibilità di essere santi come Dio è santo (cfr Levitico 11, 44-45; Esodo 22, 30 e Deuteronomio
14, 21), intendendo il termine “santità” non sul versante della
perfezione morale, ma su quello della “separazione” o “diversità” di
Israele rispetto a tutti gli altri popoli e di Dio rispetto agli altri
dèi.
Queste
regole non solo definiscono un gruppo al suo interno, ma facilmente
creano classificazioni e discriminazioni religiose ed etniche che
possono generare conflitti, laddove una giusta diversità non è accettata
e tollerata in nome di presunte identità culturali o nazionali. Tali
problemi dunque non sono soltanto appannaggio delle società
contemporanee, in perenne dibattito tra la difesa delle identità (vere o
presunte) e la possibilità di vivere insieme secondo stili
multiculturali e aperti alle diversità. Anzi, il mondo antico vi era
molto più sensibile di quanto lo siamo noi oggi: ecco perché
l’atteggiamento della prima comunità cristiana a questo riguardo risulta
particolarmente interessante.
I cristiani, gente mescolata L’inizio
dell’accoglienza del messaggio di Gesù Cristo da parte di persone
esterne al popolo di Israele portò in primo piano il tema dell’identità
religiosa che si esprimeva anche attraverso le regole alimentari. Non è
affatto un caso che proprio queste siano al centro di due testi chiave
degli Atti degli apostoli che riflettono sulla possibilità di
diventare cristiani per i non ebrei (o pagani). Uno di questi episodi
riguarda proprio il primo pagano che aderì alla fede cristiana, un
centurione della coorte Italica di stanza a Cesarea Marittima, di nome
Cornelio. In Atti 10 si può leggere la storia di come sia stato
l’apostolo Pietro ad accoglierlo nella comunità dei credenti, non prima
di avere avuto una visione nella quale una voce dal cielo gli ordinava
di uccidere e mangiare animali impuri (cfr Atti 10, 9-16 nel riquadro).
Atti degli Apostoli 10, 9-16 9
Il giorno dopo, mentre quelli erano in cammino e si avvicinavano alla
città, Pietro, verso mezzogiorno, salì sulla terrazza a pregare. 10 Gli venne fame e voleva prendere cibo. Mentre glielo preparavano, fu rapito in estasi: 11 vide il cielo aperto e un oggetto che scendeva, simile a una grande tovaglia, calata a terra per i quattro capi. 12 In essa c’era ogni sorta di quadrupedi, rettili della terra e uccelli del cielo. 13 Allora risuonò una voce che gli diceva: «Coraggio, Pietro, uccidi e mangia!». 14 Ma Pietro rispose: «Non sia mai, Signore, perché io non ho mai mangiato nulla di profano o di impuro». 15 E la voce di nuovo a lui: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano». 16 Questo accadde per tre volte; poi d’un tratto quell’oggetto fu risollevato nel cielo.
Pietro stesso così la interpreta: Voi
sapete che a un giudeo non è lecito avere contatti o recarsi da
stranieri; ma Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o
impuro nessun uomo (Atti 10, 28).
Colpisce
in questo racconto la diretta equivalenza simbolica tra la purità e
impurità degli animali e la purità e impurità degli uomini: che Dio dal
cielo chieda a Pietro di mangiare ciò che è impuro risulta ancora più
scandaloso, almeno da un punto di vista psicologico, dell’accoglienza di
un pagano tra i discepoli di Gesù (si veda a questo proposito il nostro
«Porte aperte», in Aggiornamenti Sociali 8-9 [2013] 608-612). La forte valenza simbolica e antropologica delle regole alimentari è riletta dagli Atti
come ostacolo alla relazione tra gli esseri umani: da qui la
conclusione dell’apostolo che, dopo la visione, non si può più
considerare alcun uomo come impuro.
Ancora più interessante il secondo episodio degli Atti degli apostoli,
nel quale viene narrato il cosiddetto “concilio” di Gerusalemme che,
tra il 49 e il 50 d.C., trattò per l’appunto del problema delle
relazioni all’interno della comunità cristiana tra gli ebrei e coloro
che, provenendo dal paganesimo, si trovavano in una condizione di
impurità, anche relativamente alle usanze alimentari. Potevano coloro
che riconoscevano in Gesù il Messia e il Figlio di Dio e continuavano a
osservare la legislazione mosaica, comprese le regole sulla purità e
impurità, condividere la vicinanza e persino la cena del Signore con
questi fratelli e sorelle impuri? A riguardo vi era ovviamente diversità
di opinioni. Il dibattito è così descritto in Atti 15, 4-6: Paolo e Barnaba riferirono quali grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro [ovvero, come detto subito prima, come Dio aveva aperto ai pagani la porta della fede: Atti 14, 27]. Ma
si alzarono alcuni della setta dei farisei che erano diventati
credenti, affermando: È necessario circonciderli e ordinare loro di
osservare la legge di Mosè. Allora si riunirono gli apostoli e gli
anziani per esaminare questo problema.
Al termine del duro e articolato confronto, descritto in Atti
15, si arrivò alla conclusione di non imporre nulla ai credenti
provenienti dal paganesimo, se non alcune basilari regole alimentari: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue e dagli animali soffocati (Atti
15, 29). E questo non tanto per ribadire la “sacralità” dei divieti
alimentari, quanto per permettere la condivisione della cena del Signore
tra tutti i membri delle comunità cristiane, specialmente laddove esse
comprendevano persone di entrambe le origini, come a Corinto o nelle
città dell’Asia minore. Ricordiamo infatti come nella Chiesa primitiva
la celebrazione eucaristica domenicale (la cena del Signore, per
l’appunto) comprendesse la condivisione del pasto tra tutti i membri
della comunità presenti, che era fortemente ostacolata, se non impedita,
quando sottogruppi diversi seguivano regole alimentari differenti.
Differenze alimentari e comunione In
seguito alle decisioni prese al “concilio” di Gerusalemme, le regole
alimentari, pur osservate dalla parte giudaica della comunità, cessarono
di avere per tutti i cristiani lo statuto di comandi divini, mantenendo
unicamente una valenza comunionale: la loro osservanza, cioè, venne
fatta rientrare sotto l’applicazione del comandamento dell’amore, per
far sì che tutti potessero condividere in pace la comunione e i suoi
segni concreti, tra cui il pasto comune.
Tuttavia
il compromesso raggiunto chiedeva a entrambi i gruppi di cambiare le
proprie abitudini e tradizioni: se i cristiani provenienti dal
paganesimo dovevano adottare norme alimentari piuttosto stravaganti
secondo la loro mentalità (ad esempio per quanto riguarda le pratiche di
macellazione), quelli di discendenza ebraica rischiavano di ritrovarsi
nel piatto cibi considerati impuri (come crostacei o carne di maiale) o
non cucinati secondo le regole della purità (ad esempio mescolando carne
e latte o suoi derivati). Non è quindi difficile comprendere come sulle
questioni alimentari si accendessero dibattiti, se non veri e propri
conflitti, all’interno delle comunità cristiane sparse per tutto il
Mediterraneo. Le lettere di Paolo lo testimoniano: Uno crede di poter mangiare di tutto; l’altro mangia solo legumi (Romani
14, 3; probabilmente in riferimento alla paura dei provenienti dal
giudaismo nei confronti di carni non macellate o cucinate secondo le
regole di purità); Chi mangia di tutto, mangia per il Signore, dal
momento che rende grazie a Dio; chi non mangia di tutto, non mangia per
il Signore e rende grazie a Dio (Romani 14, 6). Tali
affermazioni lasciano intravedere come la realtà delle comunità fosse
diversa dalle indicazioni date al termine del “concilio” di Gerusalemme:
ogni gruppo continuò infatti a comportarsi secondo le proprie
tradizioni alimentari e questo, con le polemiche che ne conseguivano,
configurava una frattura pratica della comunione.
In
tali contesti l’indicazione di Paolo, che pure non ha paura di definire
i tabù alimentari a base religiosa come una caratteristica dei
cristiani “deboli” (1 Corinzi 8), va sempre nella linea del
comandamento dell’amore, chiedendo non di modificare le proprie
abitudini, ma di non giudicarsi e di sapersi accogliere gli uni gli
altri: Colui che mangia, non disprezzi chi non mangia; colui che non mangia, non giudichi chi mangia: infatti Dio ha accolto anche lui. D’ora
in poi non giudichiamoci più gli uni gli altri; piuttosto fate in modo
di non essere causa di inciampo per il fratello. Io so, e ne sono
persuaso nel Signore Gesù, che nulla è impuro in se stesso; ma se uno
ritiene qualcosa come impuro, per lui è impuro. Ora se per un cibo il
tuo fratello resta turbato, tu non ti comporti più secondo carità (Romani 14, 3.14-15). Le stesse indicazioni sono riconfermate in 1 Corinzi
8, a proposito della possibilità di mangiare quelle carni che erano
state utilizzate per i sacrifici nei templi pagani e che erano vendute a
basso prezzo nei mercati – i cosiddetti idolotiti – e in Colossesi 2, 16-23.
1Cor 8, 4.8-13 4
Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi
sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se
non uno solo. 8
Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo,
non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un
vantaggio. 9 Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10
Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un
tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta
a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 11 Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12 Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13 Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.
Mangiare tutto?
Dunque
l’abbandono dell’osservanza dei precetti alimentari rispondeva
all’esigenza della comunità primitiva di riconfigurare i segni
dell’appartenenza identitaria in modo da evitare divisioni,
discriminazioni e conflitti tra i credenti di diversa origine. Risultò
così una applicazione pratica del principio fondamentale espresso da
Paolo: Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Galati
3, 28). Questa decisione, se ci si riflette a fondo, andava a
scardinare una pratica profondamente radicata nel sentire che di fatto
accomunava ogni religione. Eliminare ogni limite alimentare fu una vera e
propria inversione di prospettiva: l’accesso alla fede in Gesù e di
conseguenza alla comunità cristiana non si basava più sul possesso di
determinati requisiti di comportamento, ma sulla fede nel suo messaggio
di amore. Fu una rivoluzione culturale di portata gigantesca, che
tuttavia contiene anche il rischio di una diversa deriva.
Con
la graduale scomparsa delle comunità giudeo-cristiane sparirono infatti
del tutto nel cristianesimo le regole alimentari e il poter mangiare
tutto divenne a sua volta caratteristica identitaria dei cristiani.
Tuttavia, vista da un lato la natura simbolica dell’essere umano e
dall’altro la profonda valenza antropologica dell’atto del mangiare,
questo non è privo di conseguenze, come ci ricorda l’affermazione
dell’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, secondo cui «un cibo è adatto per mangiare (bon à manger) se è adatto per pensare (bon à penser)»(Il totemismo oggi,
Feltrinelli, Milano 1964; or. fr. del 1962). Rinunciare a precetti e
divieti alimentari per diventare coloro che possono “mangiare e bere
tutto” rischia di introdurre il germe dell’anomia, di permettere la
deriva dell’eliminazione di ogni limite: non è proprio questo il senso
del consumare il frutto proibito che costituisce il primo peccato di
Adamo ed Eva? Poter “mangiare tutto”, senza alcun divieto, è certamente
la base di una possibilità di comunione, ma apre anche la porta alla
possibilità di trascendere il rispetto di qualsiasi limite. Si
aprirebbero qui molte possibili riflessioni bioetiche, ecologiche o sui
limiti della ricerca scientifica e della tecnologia: la domanda se si
possa davvero “mangiare tutto” apre a orizzonti ancora più vasti e di
grande attualità, svelando un significato che la nostra mentalità
contemporanea fatica a scorgere sotto l’apparente bizzarria delle
antiche regole alimentari. Per districarsi in questioni di tale
complessità, resta di fondamentale importanza non perdere di vista la
tutela della comunione, tra le persone e non solo: almeno per quanto
riguarda l’impostazione biblica, è proprio questo lo scopo sia delle
regole alimentari (dal divieto originario di cibarsi di carne come segno
di armonia cosmica, alla demarcazione del gruppo al cui interno vige la
comunione a base religiosa), sia del loro superamento quando esse
diventano un ostacolo nella comunità cristiana.