Agire in modo responsabile per il bene nostro e di quanti ci stanno vicini: questo pressante invito, che ci accompagna da quando è scoppiata la pandemia, ha riacceso l’attenzione sui legami di solidarietà che ci uniscono. Ma i recenti eventi hanno anche fatto emergere le resistenze a riconoscere questi legami e assumere fino in fondo l’appello alla reciproca responsabilità. Qual è il fondamento di una corretta comprensione della responsabilità? Verso chi siamo responsabili? E in che misura?
Gli appelli alla responsabilità si sono moltiplicati nel tempo della pandemia: dall’ambito civile, per convincere i cittadini a rispettare le misure di prevenzione, a quello politico, con gli inviti a far prevalere il bene del Paese sugli interessi di parte. È emersa con chiarezza l’impossibilità di governare una tale situazione di emergenza, ricorrendo esclusivamente a provvedimenti legislativi e a sanzioni: senza un’assunzione personale e collettiva di responsabilità tutti gli sforzi necessari a combattere il virus rischiano di essere vanificati.
L’attualità del tema è stata evidenziata anche da papa Francesco e dal grande imam Ahmad Al-Tayyib: insieme a grandi e apprezzati progressi storici, «si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità» con una conseguente «sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione» che può portare «a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva» (cfr Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Prendere coscienza delle proprie responsabilità e promuovere la solidarietà universale sono diventate, quindi, una questione di vitale importanza.
Mi sta a cuore: amore e dolore
La vicenda di Giuseppe, raccontata in Genesi 37-50, è una delle più significative da questo punto di vista. Suo padre, Giacobbe, lo predilige rispetto agli altri undici figli e rivolge verso di lui una cura particolare, simboleggiata dalla veste che gli confeziona: una bellissima tunica a maniche lunghe. Da parte sua, Giuseppe ha un particolare dono di profezia e ostenta la sua superiorità. Tutto questo suscita nei suoi fratelli una gelosia tale che decidono di liberarsi di lui, vendendolo come schiavo ai mercanti nomadi e facendolo passare per morto.
Dopo molti anni, la carestia li spinge a cercare aiuto in Egitto, dove nel frattempo Giuseppe è diventato viceré, ma quando si presentano a corte non lo riconoscono. A questo punto il fratello tradito potrebbe usare il suo potere in molti modi, anche per vendicarsi. E invece Giuseppe agisce responsabilmente su due livelli. Su un piano materiale, si fa carico delle necessità della famiglia d’origine, donandole il grano di cui ha bisogno; su quello relazionale, fa in modo che i suoi fratelli riconoscano il male compiuto. Senza una sincera ammissione di colpa, infatti, non è possibile assumersene la responsabilità, riscattandosi, né sarebbe possibile riannodare i vincoli di solidarietà fraterna. Lo ha dimostrato ad esempio il ruolo determinante avuto dalla Commissione per la verità e la riconciliazione istituita in Sudafrica nel 1995 per volere di Nelson Mandela, per contribuire al processo di pacificazione del Paese dopo la fine del regime dell’apartheid.
Tornando all’episodio biblico, Giuseppe, per suscitare tale presa di coscienza nei fratelli, chiede loro di consegnargli Beniamino, il più piccolo dei figli di Giacobbe, rimasto a casa con il padre. Fino a quel momento nessuno dei fratelli si era davvero lasciato toccare dalle conseguenze della propria azione: ognuno si era giustificato nascondendosi dietro la corresponsabilità del gruppo e si era reso insensibile al dolore causato al padre dalla scomparsa del figlio più amato. Ora, però, la situazione rischia di ripetersi, perché nel frattempo Beniamino, il figlio della vecchiaia, è diventato il prediletto e mai e poi mai Giacobbe avrebbe acconsentito a mandarlo in Egitto. Ecco, allora, che Ruben, il primogenito, offre al padre questa garanzia: «Farai morire i miei due figli, se non te lo ricondurrò. Affidalo alle mie mani e io te lo restituirò» (Genesi 42,37). La proposta per noi oggi suona assurda e irresponsabile, ma nella mentalità biblica esprime il cambio di atteggiamento del fratello maggiore, divenuto capace di immedesimarsi con il dolore del padre al punto da essere disposto a viverlo in prima persona. Inoltre, Ruben si mostra responsabile verso tutta la famiglia, stretta dalla morsa della fame: espone al rischio i suoi familiari, pur di portare a compimento una missione che può salvare tutti. L’esempio del fratello maggiore suscita l’emulazione di un altro fratello, Giuda, che a sua volta offre al padre la sua garanzia.
Con una manovra dura e azzardata, frutto della sua sapienza educativa, Giuseppe rigenera la fratellanza, suscitando il senso di responsabilità degli uni verso gli altri e di tutti nei confronti del padre, che arriva a compimento quando ci si immedesima nel dolore altrui al punto di farsene carico, come se fosse vissuto in prima persona.
«Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è
il popolo stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura
della fragilità di ogni uomo,
di ogni donna,
di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.»
Fratelli tutti, n. 79
Si giunge a questo vertice quando si accetta il rischio di condividere gli effetti del male compiuto personalmente o da altri, andando oltre la distinzione fra responsabilità individuale e collettiva, agendo secondo il principio dell’
I care (“mi sta a cuore”) così caro a don Lorenzo Milani, in base al quale l’attenzione per l’altro, per la sua promozione e la sua crescita, è parte costitutiva del proprio essere (cfr Papa Francesco,
La cultura della cura come percorso di pace, LEV, Città del Vaticano 2021).
I fratelli di Giuseppe hanno creduto di poter eludere la loro responsabilità ponendo una distanza fra sé e il fratello, ma l’illusione svanisce quando lo ritrovano pronto a perdonare. Sperimentiamo anche noi il potere anestetico della distanza quando osserviamo le vicende del mondo attraverso uno schermo, senza esserne davvero toccati. O quando, per non entrare in contatto con profughi e migranti, “esternalizziamo” le frontiere, spostandole oltre i confini dell’Unione Europea.
La prossimità, invece, lo stare uno di fronte o accanto all’altro, è necessaria per crescere in umanità e sviluppare un vero senso di fratellanza. Pertanto tutelare e promuovere i luoghi della prossimità, come la famiglia e la scuola, ed educare alla solidarietà sono misure essenziali per porre le fondamenta di una vera fraternità umana (Papa Francesco, enciclica Fratelli tutti, 2020, nn. 37-41 e 114-117).
Inevitabilmente solidali, di generazione in generazione
Alla fine Giuseppe e i suoi fratelli ritrovano l’unità familiare attorno al padre Giacobbe, trasferitosi con loro in Egitto. Così si conclude il libro della Genesi e inizia quello dell’Esodo, che racconta come Israele diventa un popolo libero, fondato sui vincoli di fratellanza del clan originario, che vanno sempre riscoperti e riannodati.
Alla base della tradizione biblica, infatti, c’è una visione comunitaria, il senso di un’inevitabile solidarietà, nel bene e nel male, fra tutti i membri del popolo. L’individuo, inteso come persona autonoma e separata dal suo gruppo d’origine, non è concepibile in Israele e trovarsi separati dalla propria comunità costituisce un evento drammatico, come esprime bene, ad esempio, la sofferenza sperimentata dal lebbroso costretto all’isolamento: Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi fanno compagnia soltanto le tenebre (Salmo 88,19). Anche per questo motivo la legge prevede una particolare cura per l’orfano, la vedova e lo straniero soggiornante in Israele (cfr Esodo 22,20-21).
La portata della solidarietà si estende anche nel tempo, abbracciando generazioni diverse. Nella Bibbia una parola in particolare lo esprime chiaramente: eredità. Si tratta di tutto quello che i padri tramandano ai figli: il patto di alleanza stipulato dal Signore con i patriarchi, con i suoi diritti e doveri; la terra; i beni materiali acquisiti o i debiti contratti; le relazioni del clan familiare e così via.
Quando, però, una generazione commette il male, il diritto a ricevere l’eredità e il dovere di conservarla integra possono avere risvolti drammatici: i figli, pur essendo innocenti, rischiano di dover espiare la colpa o gli errori dei padri. Il male, infatti, non può restare impunito, è una questione fondamentale di giustizia tipica delle culture antiche, compreso Israele: fin dal principio c’è un ordine cosmico cui corrisponde quello sociale, tutelato dalla legge, e ogni violazione comporta la necessità di ripristinarlo. Perciò, se il male non viene espiato dal colpevole, può ricadere su un altro, innocente.
Questa visione della giustizia motiva l’osservanza della legge. Il decalogo, infatti, inizia proibendo l’idolatria, sia perché il solo e vero liberatore di Israele dalla condizione di schiavitù è stato il Signore, sia perché la colpa della trasgressione potrebbe ricadere sulle generazioni successive: Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti (cfr Esodo 20,5-6). La legge, quindi, mira a suscitare una duplice relazione di giustizia e fedeltà responsabile: verso Dio e verso il popolo, in particolare quello che verrà. Infatti, anche se un uomo potrebbe non vedere la fine del male nell’arco della sua vita, lunga tre o quattro generazioni al massimo, dopo di lui l’amore di Dio può estendersi su mille, ovvero dura per sempre.
La questione diventa cruciale per la sopravvivenza di Israele durante l’esilio, quando la fede nelle promesse del Signore e la speranza in una futura restaurazione rischiano di venir meno. Mentre, infatti, i deportati a Babilonia possono ritenersi colpevoli di aver trasgredito l’alleanza, meritando quella punizione, i nati in terra straniera che colpa ne hanno? E se i figli devono espiare la colpa dei padri per due o tre generazioni, perché dovrebbero impegnarsi a restare fedeli all’alleanza, senza certezza di vedere la restaurazione di Israele? Così la responsabilità collettiva, invece di rinsaldare i legami di solidarietà, rischia di soffocare la speranza in un futuro migliore e quindi l’impegno per prepararne l’avvento. Del resto, affermare che tutti sono colpevoli è come negare che qualcuno lo sia davvero e così difficilmente si arriverà a riconoscersi veramente tali. Infatti, il profeta Ezechiele interviene per evitare una generale deresponsabilizzazione, ribadendo che Dio chiederà conto a ciascuno delle sue azioni (cfr il riquadro qui sotto).
Il principio della responsabilità individuale si applica a tutti, senza eccezioni, anche nell’ambito delle relazioni familiari, dove più forte è il vincolo di solidarietà: se un figlio non rispetta la legge – di cui Ezechiele dà un interessante elenco sommario, specchio delle più comuni trasgressioni – la colpa non può essere imputata al padre, se questi è giusto, e viceversa. Il proverbio ripetuto dagli esiliati e citato dal profeta: I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati è sarcastico ed esprime bene il loro stato d’animo, frustrato dal peso di una colpa non commessa e da cui non possono liberarsi, ma suona blasfemo alle orecchie di Dio, che invece ripaga ciascuno secondo le proprie opere ed è pronto a perdonare il malvagio se si ravvede, come a riprendere il giusto se commette il male (cfr Ezechiele 18,21-35).
L’attualità della questione risulta evidente se pensiamo agli effetti della crisi ambientale o di quella economica, che gravano soprattutto sulle nuove generazioni con il peso della loro eredità. È uno dei fattori all’origine del senso di sfiducia nel futuro e di rassegnazione che serpeggia tra i giovani, soprattutto in relazione all’inserimento lavorativo (cfr Eurispes, 32° Rapporto Italia, Minerva, Bologna 2020, 5-12).
Ezechiele 18,14-20
14 Se uno ha generato un figlio che, vedendo tutti i peccati commessi dal padre, sebbene li veda, non li commette, 15 non mangia sui monti, non volge gli occhi agli idoli d’Israele, non disonora la donna del prossimo, 16 non opprime alcuno, non trattiene il pegno, non commette rapina, dà il pane all’affamato e copre di vesti chi è nudo, 17 desiste dall’iniquità, non presta a usura né a interesse, osserva le mie norme, cammina secondo le mie leggi, costui non morirà per l’iniquità di suo padre, ma certo vivrà. 18 Suo padre invece, che ha oppresso e derubato il suo prossimo, che non ha agito bene in mezzo al popolo, morirà per la sua iniquità. 19 Voi dite: “Perché il figlio non sconta l’iniquità del padre?”. Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutte le mie leggi e le ha messe in pratica: perciò egli vivrà. 20 Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua malvagità.
Pesi e contrappesi
In una società fondamentalmente religiosa come l’Israele antico non c’è differenza fra peccato e delitto, tutto è sotto la legge. Per noi, invece, tale differenza esiste e molti comportamenti diffusi sono irresponsabili ma non sanzionabili, come, ad esempio, uno stile di vita consumistico. La possibilità di modificare abitudini non sostenibili è strettamente legata a una presa di coscienza responsabile che tenga insieme il piano individuale e quello collettivo.
Da questo punto di vista il nostro tempo può essere letto secondo due processi opposti: uno di responsabilizzazione e l’altro di deresponsabilizzazione. Il primo è favorito dal senso di appartenenza, dalla possibilità di partecipazione, dalla capacità di dialogare con se stessi e valutare le conseguenze delle proprie azioni, da incentivi e sanzioni. Il secondo fa leva sulla rimozione degli effetti negativi: il conformarsi ai cliché sociali; la ricerca di un nemico cui addossare la colpa; di un luogo dove gettare gli scarti del proprio benessere; di un costante flusso di stimoli, di informazioni ed emozioni; di un principio da rivestire con uno slogan per ottenere un’adesione cieca, da funzionari. La storia, però, dimostra quanto l’azione, in particolare nell’ambito politico, sia inevitabilmente misurata in base a un’«etica della responsabilità», come già spiegava Max Weber nel 1919 nel celebre saggio La politica come professione. Perché la questione è politica nel senso etimologico del termine, riguarda il nostro vivere insieme, in comunità: non si tratta di stabilire se un individuo è buono o cattivo in sé, ma se la sua condotta è buona o cattiva per la collettività. E questo perché al centro dell’attenzione non deve esserci l’individuo, l’io, ma il mondo, l’insieme.