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Che fine hanno fatto le Province?

Che ne è delle Province dopo i tanti interventi legislativi degli ultimi anni? Ridimensionate dal punto di visto politico, le Province hanno visto ridotte le loro funzioni e si ritrovano sospese in un limbo di precarietà legislativa e finanziaria. Le tappe incerte della loro storia recente offrono una buona occasione per riflettere sul modo in cui nel nostro Paese sono affrontate le riforme di sistema, oltre a mostrare che una domanda non può essere elusa ancora a lungo: quale modello di Provincia vogliamo per il futuro? Alfredo L. Tirabassi, Segretario generale della Provincia di Reggio Emilia, affronta questi interrogativi in un articolo nel numero di febbraio di Aggiornamenti Sociali. Di seguito la parte dedicata ai nodi problematici ancora irrisolti. Qui puoi scaricare l'articolo integrale.


La vicenda delle Province è emblematica del modo di impostare le riforme nel nostro Paese: con una logica emergenziale, al di fuori di un quadro coerente e con una scarsa conoscenza delle questioni in gioco. In vista di una ripresa del dibattito sul futuro delle Province è allora opportuno mettere in luce alcuni nodi problematici di cui sarebbe bene che il legislatore tenesse conto. 

a) La riforma delle Province serviva

Benché le motivazioni della riforma, soprattutto di tipo finanziario, fossero inadeguate, un intervento di riforma delle Province era necessario perché erano diventate strutture sovrabbondanti e costose rispetto alle loro finalità, centri di potere locale spesso autoreferenziali, in competizione con i Comuni e incapaci di condividere obiettivi e strategie. Come evidenziato in una precedente ricerca (Tirabassi 2012), il ceto politico provinciale aveva necessità di legittimare il proprio ruolo occupandosi un po’ di tutto perché le esigenze di governo strettamente riconducibili alle funzioni provinciali erano piuttosto modeste.

b) Una semplificazione non ponderata

Chi ha pensato la riforma ha immaginato che togliendo il livello istituzionale intermedio, quello superiore si sarebbe adagiato semplicemente su quello inferiore e tutto avrebbe continuato a funzionare. La realtà è però ben diversa. Il governo locale è un sistema e non è realistico pensare di modificare radicalmente un livello senza intervenire sugli altri, tenendo conto delle loro criticità. Governare non è solo svolgere funzioni amministrative, ma soprattutto prendere decisioni in contesti complessi, con una pluralità di soggetti diversi dei cui interessi occorre tenere conto. La riforma non si è preoccupata di questi aspetti e della riallocazione di processi decisionali locali al cui interno le Province hanno storicamente avuto un ruolo significativo.

c) Un contesto territoriale disomogeneo

C’è un altro elemento continuamente trascurato: la disomogeneità geografica del sistema dei poteri locali. Ci sono grandi Regioni con molte Province in cui è pressoché impossibile immaginare un rapporto diretto tra i Comuni, talvolta piccolissimi, e la Regione; ma ci sono realtà regionali molto più piccole. Giusto per fare qualche esempio, la Provincia di Prato ha 7 Comuni, quella di Cuneo 250; la Provincia di Brescia ha più abitanti delle sei Regioni italiane più piccole. Può una riforma consapevole non tener conto di queste variabili e non riflettere sul complessivo sistema delle autonomie locali, Regioni incluse?

d) Una mutazione genetica delle Regioni?

La riforma delle Province ha accentuato, in misura diversa, una tendenza in atto nella definizione del ruolo delle Regioni: secondo la Costituzione esse hanno essenzialmente compiti di legislazione e pianificazione, mentre l’amministrazione diretta, in forza del principio di sussidiarietà verticale, dovrebbe competere al livello più vicino ai cittadini che è adeguato in relazione alla specifica funzione. Alle Regioni dovrebbe rimanere un ruolo amministrativo residuale legato a quelle funzioni che per loro natura non possono essere delegate a un livello più basso. Nella prospettiva della soppressione delle Province, le Regioni – in modo pressoché totale in alcune come l’Emilia-Romagna o la Toscana, in forma meno accentuata in altre come la Lombardia – si sono fatte carico dei compiti amministrativi che erano delle Province in via diretta o attraverso la paradossale proliferazione di enti pubblici di nuova istituzione, come agenzie, enti strumentali e altri soggetti di diretta derivazione regionale. 

In realtà, questo fenomeno era iniziato già in precedenza, soprattutto per la gestione dei servizi ambientali, acqua e rifiuti, con la nascita degli ATO (Ambiti territoriali ottimali), le cui suddivisioni spesso ricalcano la dimensione provinciale, ma senza prevedere un ruolo per le Province. Questa frammentazione dei soggetti preposti alle varie funzioni si sta rivelando costosa e disfunzionale, oltre a tradursi in un labirinto per i cittadini e le imprese che debbono confrontarsi con enti fisicamente e culturalmente distinti.

e) È necessario indebolire la intermediazione?

Le istanze di antipolitica, che continuano a dominare il dibattito pubblico e dipingono i ceti politici come inutili e parassitari, hanno favorito le spinte che negano o riducono sostanzialmente i livelli di mediazione politica e sociale. Alla base vi è la convinzione di rafforzare il legame diretto tra il popolo e i livelli più alti del potere politico e di semplificare i processi decisionali, eliminando i lacci burocratici. Si pensi ad alcune politiche del Governo Renzi e alla complessiva visione del Movimento 5 stelle. La mediazione, per quanto spesso faticosa e non sempre immediatamente efficiente, è necessaria alla democrazia, ridurne le occasioni la indebolisce e produce una minor tutela dei diritti dei cittadini. Prima di procedere alla riforma, occorreva chiedersi se il ruolo di mediazione svolto storicamente dalle Province risultava effettivamente inutile o andasse invece riformato per renderlo più funzionale. Rispondere a questa domanda è ancora essenziale per capire che cosa fare ora con le Province.


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26 febbraio 2019
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