«Attraverso l’accumulo dei ricordi, la memoria costruisce la persona come insieme di idee e valori
tendenzialmente coerenti, ossia la “personalità” dell’individuo. […] L’esperienza vissuta e ricordata,
interiormente “ritenuta” e rammemorata. In questo senso, la memoria è la componente essenziale per l’identità
dell’individuo e per la sua eventuale integrazione nella società. […] Intaccare e attentare alla memoria di un
individuo come di un gruppo umano e di tutto un popolo significa attentare alle sue radici, mettere a repentaglio
la sua vitalità, le basi della sua identità, orientamento esistenziale, comunità, capacità di fare storia.»
(Ferrarotti F.,
, Dedalo, Bari 2003,
60). Questa citazione mette bene in evidenza la relazione tra identità personale e memoria del proprio passato.
Ricordare è fondamentale, perché ci permette di mantenere e custodire la nostra identità. Per questo malattie
come l’Alzheimer sono così tragiche, così come le amnesie o le tante rimozioni che poi evolvono in nevrosi più
o meno patologiche. Per molti versi, noi siamo la nostra memoria. Lo stesso si può dire a livello sociale: le identità collettive – quelle nazionali o di gruppi etnici e culturali
– si fondano sulla memoria di eventi di particolare significato. Nascono così le festività dei calendari civili: il giorno dell’indipendenza (il 4 luglio negli USA), della fine di una guerra (il 4 novembre e il 25 aprile in Italia), di una rivoluzione (il 14 luglio in Francia) o della “nascita” di un particolare assetto istituzionale (il 2 giugno nel nostro Paese, festa della Repubblica). Di recente hanno fatto la loro comparsa anche le “giornate della memoria”, su cui ritorneremo, dedicate invece al ricordo di eventi tragici.
6,4-5), esplicita come l’identità (di popolo, prima ancora che di singolo) venga da una serie di eventi legati al fatto che Dio è entrato nella storia:
(6,12). La propria identità si costruisce a partire dal ricordo del bene ricevuto, nella consapevolezza di essere stati autori di azioni malvagie. In questo senso, la Bibbia non ha paura di essere onesta, né opera rimozioni (che si tratti dei tradimenti storici del popolo o di quelli degli apostoli).
Deuteronomio 6,4-6.10-13
3Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. 5Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. 6Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. [...] 10Quando il Signore, tuo Dio, ti avrà fatto entrare nella terra che ai tuoi padri Abramo, Isacco e Giacobbe aveva giurato di darti, con città grandi e belle che tu non hai edificato, 11case piene di ogni bene che tu non hai riempito, cisterne scavate ma non da te, vigne e oliveti che tu non hai piantato, quando avrai mangiato e ti sarai saziato, 12guàrdati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. 13Temerai il Signore, tuo Dio, lo servirai e giurerai per il suo nome.
Fare memoria del bene ricevuto
La Bibbia non propone una riflessione teoretica o psicologica sulla funzione del ricordo, ma vede nell’atto del ricordarsi una categoria teologica, una delle prerogative centrali dell’immagine stessa di Dio. Dio è colui che
si ricorda di certe persone e si volge verso di loro o verso il popolo con misericordia per fare il loro bene:
Dio si ricordò di Noè … (
Genesi 8,1);
Dio si ricordò di Abramo … (19,29);
Dio si ricordò di Rachele … (30,22);
Dio si ricordò di Anna … (
1Samuele 1,19). Soprattutto, Dio è colui che si ricorda del suo patto solenne, della sua
alleanza con i padri e con il popolo per portare la salvezza in tempi di difficoltà, per perdonare quando il popolo ha peccato, ecc. Decine sono i testi in cui si fa riferimento a tale processo di salvezza. Nei riquadri che seguono ne sono riportati tre, relativi a momenti cruciali della storia biblica: dopo il cosiddetto diluvio universale, la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, la salvezza dalla deportazione in Babilonia.
Il Salmo 105 riflette tale teologia e la fa divenire paradigma per leggere tutta la Bibbia. La memoria delle opere meravigliose che Dio ha fatto trova la sua radice nel ricordo che Dio custodisce della sua
alleanza che rimane per sempre, per
mille generazioni. La sua fedeltà al bene non è solo cosa riguardante il passato, ma determina da un lato la possibilità della sua reiterazione nel presente e nel futuro, e, dall’altra, deve guidare una condotta nel presente per il popolo:
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome […] meditate tutte le sue meraviglie […] cercate il Signore e la sua potenza, ricercate sempre il suo volto […] Dio si è sempre ricordato della sua alleanza, parola data per mille generazioni, dell’alleanza stabilita con Abramo e del suo giuramento a Isacco […] perché osservassero i suoi decreti e custodissero le sue leggi (105,1.2.4.8-9.45). In questa linea, frequentemente il popolo è invitato al ricordo del bene ricevuto, del bene fatto da Dio. E questa memoria si deve fare “memoriale”, ovvero riproposizione nel presente per trarne le conseguenze in termini di scelte etiche e di stile di vita. Lo stesso meccanismo è alla radice del rapporto tra l’azione salvifica di Gesù e la comunità cristiana. La vita nell’oggi va vissuta come memoria e riproposizione della vita e delle azioni di Gesù:
Fate questo in memoria di me (
Luca 22,19;
1Corinzi 11,24),
Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi (
Giovanni 13,15). Non a caso la maggioranza dei testi biblici riferiti al
ricordare e al
non dimenticare riguarda la memoria del bene fatto (per lo più da parte di Dio) e ricevuto (per lo più da parte del popolo e delle persone).
Genesi 9,12-16
12Dio disse: «Questo è il segno dell’alleanza, che io pongo tra me e voi e ogni essere vivente che è con voi, per tutte le generazioni future. 13Pongo il mio arco sulle nubi, perché sia il segno dell’alleanza tra me e la terra. 14Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, 15ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. 16 L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra».
Esodo 2,23-25
23Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. 24Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. 25Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero.
Ezechiele 16,58-60
58Tu stai scontando la tua scelleratezza e i tuoi abomini. Oracolo del Signore Dio. 59Poiché così dice il Signore Dio: Io ho ricambiato a te quello che hai fatto tu, perché hai disprezzato il giuramento infrangendo l’alleanza. 60Ma io mi ricorderò dell’alleanza conclusa con te al tempo della tua giovinezza e stabilirò con te un’alleanza eterna.
Fare memoria del male fatto
Nel quadro del ricordo del bene ricevuto trova posto anche la memoria del male compiuto, come passaggio ineliminabile nel processo di assunzione della propria responsabilità (cfr il nostro «Assumersi la responsabilità», in
Aggiornamenti Sociali, 3 [2014] 250-253). Ricordarsi della propria colpa, dei propri errori, della propria ingiustizia è alla radice della corretta collocazione della propria esistenza (contro il pericolo di considerarsi giusti di fronte agli altri) e della possibilità di non reiterare il male. Una tale necessità è inscritta profondamente nel messaggio biblico e si trova al centro del messaggio dei due Testamenti. A riguardo un testo particolarmente significativo è
Ezechiele 20: la narrazione della vicenda del popolo di Israele alla luce delle sue infedeltà, per rendere invece manifesta la fedeltà di Dio al proprio amore nei suoi confronti lungo tutto il suo percorso storico. Occorre al popolo la capacità di ricordarsi del proprio male per vedere come Dio lo abbia aiutato sempre, indipendentemente dalle colpe. Infatti, leggiamo al termine del capitolo la motivazione di tutta la lista dei peccati di Israele:
Allora voi saprete che io sono il Signore, quando vi condurrò nella terra d’Israele, nella terra che alzando la mano giurai di dare ai vostri padri. Là vi ricorderete della vostra condotta, di tutti i misfatti dei quali vi siete macchiati, e proverete disgusto di voi stessi, per tutte le malvagità che avete commesso. Allora saprete che io sono il Signore, quando agirò con voi per l’onore del mio nome e non secondo la vostra malvagia condotta e i vostri costumi corrotti, o casa d’Israele (20,42-44). Nel Nuovo Testamento questo diventa il messaggio costante di san Paolo, che richiama continuamente ai cristiani la necessità di ricordarsi che
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù (
Romani 3,23-24); e più avanti nella stessa lettera spiega come
a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (5,7-8).
Ricordarsi del male compiuto è dunque un atteggiamento fondamentale per la persona biblica. Ma vale la stessa regola quando si è vittime? Occorre continuare a “fare memoria” del male subito, reiterando la sofferenza che questo ha causato? La Bibbia approverebbe il detto «Posso perdonare ma non posso non ricordare»?
Ricordarsi del male subìto?
Leggendo la Bibbia si rimane colpiti dalla assenza quasi totale di testi che invitano a ricordare il male subìto. Gli unici testi che vanno in tale direzione riguardano Dio, che si ricorda delle azioni malvagie dei popoli nemici di Israele per compiere contro di loro la propria vendetta. Dio è anche colui che non scende a patti col male e si ricorda di esso:
il Signore chiede conto del sangue versato, se ne ricorda, non dimentica il grido dei poveri (
Salmo 9,13; cfr anche 74,22s.; 109,14s.;
Osea 8,13; 9,9). Solo lo stolto e il malvagio pensano il contrario:
Egli pensa: «
Dio dimentica, nasconde il volto, non vede» (
Salmo 9,32; cfr anche
Osea 7,2). Invece sono numerosissime le invocazioni che invitano Dio a non ricordarsi del male compiuto, ma soltanto della sua bontà, del suo nome, della sua fedeltà all’alleanza, e così via. Così per esempio il
Salmo 25,7:
I peccati della mia giovinezza e le mie ribellioni non li ricordare, ricordati di me nella tua misericordia per la tua bontà Signore (cfr anche, tra gli altri innumerevoli testi,
Isaia 64,8 e
Geremia 31,34). Dio dovrebbe quindi ricordarsi del male che altri hanno fatto a me e dimenticarsi di quello che io ho compiuto.
Questa dissimmetria, a prima vista sorprendente, costituisce in realtà l’asse fondante delle relazioni di salvezza tra umanità e Dio, prima e dopo Gesù Cristo: in quest’ottica non si tratta quindi di dimenticare il male subìto, né di scivolare in quell’oblio che rischia di togliere lo spessore del male stesso, ma di non costruire la propria identità su di esso. Va in questa direzione anche Elena Loewenthal quando scrive: «L’oblio servirebbe dunque anche a lenire questa frustrazione, questa lontananza inguaribile che il sentimento vorrebbe superare perché ti tiene distante dai tuoi affetti, dalle persone che ti hanno messo al mondo. Ma ovviamente l’oblio non è una terapia culturale accettabile. Viviamo in un tempo che celebra la memoria come valore e l’oblio come difetto. Ricordare è un bene di per sé. Siamo portati a considerare questo come un assunto indiscutibile. Ma forse non è così. Forse anche le società hanno bisogno di dimenticare – le ferite, i torti perpetrati e quelli subiti. Come l’individuo, che per riprendersi deve rimuovere i traumi almeno in parte, almeno per un certo tempo. Al di là di questo, il Giorno della Memoria sta dimostrando, purtroppo, che la memoria non porta necessariamente un segno positivo, non è utile o benefica di per sé. Può rivoltarsi e diventare velenosa. Scatenare il peggio invece di una presa di coscienza» (
Contro il Giorno della Memoria, e-book, ADD Editore, Torino 2014).
L’oggetto della memoria
La riflessione di Loewenthal ci permette di accennare a come i paradigmi biblici sopra esposti possano aiutare ad approfondire il senso e le possibili ambiguità delle ormai numerose “giornate della memoria” che il nostro calendario civile propone. Anche se può sembrare strano, è relativamente recente l’istituzione di occasioni pubbliche che fanno del ricordo di eventi tragici o dolorosi del passato il proprio oggetto. Mentre è tradizione antichissima la celebrazione di eventi fondativi (come l’anniversario della fondazione di una città o di uno Stato) o “gloriosi” – sulla base delle diverse definizioni di “gloria” – (come una vittoria militare o una rivoluzione che ha portato a un nuovo assetto politico o sociale), solo lentamente la cultura occidentale ha messo a fuoco l’importanza di “commemorare” (ovvero “fare insieme memoria”) anche eventi che hanno segnato delle profonde ferite per la società, per una nazione o per un particolare gruppo di persone (cfr il nostro «
Memoria collettiva», in
Aggiornamenti Sociali, 9/10 [2011] 633-636)
. La Repubblica italiana negli anni ne ha riconosciute ufficialmente tre: la Giornata della Memoria (27 gennaio) per commemorare le vittime della Shoah, la Giornata del Ricordo (10 febbraio) per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, e il Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo interno e internazionale e delle stragi di tale matrice (9 maggio). In modo non ufficiale ne sono celebrate anche altre (ad esempio quella per le vittime delle mafie, il 21 marzo) e di altre ancora si formula la proposta (come una possibile giornata della memoria delle vittime dei gulag e dei regimi comunisti).
La finalità di queste celebrazioni consiste evidentemente nel ricordare gli eventi storici a cui ciascuna è dedicata, ma con una specificità che manca ad altre celebrazioni civili. Lo ha spiegato il presidente Napolitano: «Quel che più conta, tuttavia, è scongiurare ogni rischio di rimozione di una così sconvolgente esperienza vissuta dal Paese, per poter prevenire ogni pericolo di riproduzione di quei fenomeni che sono tanto costati alla democrazia e agli italiani» (
Intervento in occasione del Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice, 9 maggio 2008, in <
www.quirinale.it>). Così il ricordo sembra avere come precisa finalità l’evitare la ripetizione dell’evento commemorato, prevenendone e combattendone le cause.
Tuttavia si ha spesso l’impressione che molte celebrazioni spingano piuttosto alla rivendicazione della memoria del male subìto da un gruppo o da una comunità storica. Con quali conseguenze? Il rischio è di non fare altro che alimentare la spirale dell’odio e del pregiudizio etnico e sociale, sulla base di un ragionamento che potremmo così semplificare: «Siccome i nostri antenati sono stati vittime dei vostri antenati, oggi noi vi dobbiamo guardare con sospetto/inimicizia/odio, perché potremmo ancora oggi essere vostre vittime. O magari, se possibile, dovremmo cercare di vendicarci». Nel passato, la celebrazione del Venerdì santo portava i cristiani ad andare in processione a punire gli ebrei dell’epoca per il “delitto” dell’uccisione di Gesù. Ancora recentemente, la memoria della battaglia della piana dei Merli (Kosovo Polje a nord di Priština, nel Kosovo) del 1389 – nella quale l’esercito cristiano serbo subì una catastrofica sconfitta da parte dell’esercito islamico ottomano – ha avuto conseguenze drammatiche in alcune regioni balcaniche in termini di conflitti etnici e religiosi. O almeno è stata utilizzata come pretesto più o meno ideologico a questo scopo.
Molte inimicizie e incapacità di costruire una convivenza pacifica tra popoli, gruppi etnici o religiosi si alimentano di memorie di mali subìti nel passato che impediscono una corretta visione del presente. Non sembra esserci spazio per una possibile pace, se prima non si “risolve” ciò che è avvenuto nel passato. Il bene scompare completamente dalla scena, ci si definisce unicamente sulla base del male subìto nel passato (psicanaliticamente: secondo categorie vittimistiche) e il presente risulta completamente bloccato. Non si tratta dunque di contrapporre memoria e oblio, ma di trovare modalità per integrarle. È quello che è avvenuto in Europa (almeno occidentale) dopo la Seconda guerra mondiale: si è costruita la possibilità di una pace tra popoli che molto avevano da rinfacciarsi, se ci si fosse basati solo sulla memoria dei mali subiti. Come hanno potuto Francia, Belgio, Germania e Italia, dopo nemmeno un decennio dal termine della guerra, porre le basi di ciò che è divenuta una “comunità europea”? Recuperare le risorse di senso che lo hanno reso possibile potrebbe aiutarci ad attualizzare autenticamente, nel nostro mondo globalizzato e interdipendente, le radici bibliche e cristiane della nostra cultura.