Video, foto e racconti da Gaza non sono mancati in poco più di un anno di combattimenti. Abbiamo visto le macerie, i feriti, le bombe con un occhio esterno, con una certa oggettività, lasciando all’empatia dello spettatore il compito di lasciarsi toccare nell’intimo. I due testi che presentiamo sono invece racconti personali, che mescolano la narrazione fattuale con lo stato d’animo, i pensieri, la coloritura del vissuto.
Sono due testi diversi, ma in qualche misura il libro di Martina Marchiò, Brucia anche l’umanità, fa da cappello finale alla prima parte del testo di Valerio Nicolosi, C’era una volta Gaza. Infatti, mentre in quest’ultimo vengono narrati, come una sorta di diario, i diversi viaggi fatti dall’A. a Gaza, l’infermiera di Medici Senza Frontiere racconta che cosa avveniva tra aprile e maggio 2024 in quel lembo di terra che è stata la patria per due milioni di persone.
Nicolosi scopre le diverse sfaccettature di questo luogo, descrive la vitalità di un popolo che nell’ultimo secolo si è trovato spesso di fronte alla distruzione, rinnovando città e strutture più volte ridotte in macerie: «Oltre alla strada sul lungomare, camminando mi accorsi che mancavano intere parti di città, a volte bastava svoltare un angolo per ritrovarsi davanti all’improvviso interi isolati trasformati in cumuli di macerie» (p. 43).
Lo stesso A. e fotografo fa comprendere come gli scontri e gli attacchi non durano da un anno, bensì da decenni: manifestazioni, scontri, uccisioni, bombardamenti, erano già presenti nella vita dei palestinesi di Gaza, come pure in Cisgiordania, dove si conclude il suo libro, con un viaggio in una West Bank mutata dopo il 7 ottobre 2023. C’era una volta Gaza è, infatti, un racconto diacronico che parte nel 2014 a Gaza e finisce in Cisgiordania nel 2024, un viaggio in cui il lettore è accompagnato con tutti i sensi. Con la vista, vedendo le foto e immaginando abiti, colori, costruzioni, macerie, le fragole, il mare. Con l’udito: le urla, i pianti, le risate, i canti, gli spari. L’olfatto: il porto, le case, i cibi, gli incendi. È un viaggio immersivo in una complessità difficile da narrare, fatta di ossimori, di ferite, di diritti, di quotidianità.
Ma se questa è la storia recente, fotografie dell’ultimo decennio, il racconto di Martina Marchiò ci fa entrare negli spazi angusti di un ospedale da campo, tra corpi mutilati, pianti, urla, lutti, disperazione. Ci fa entrare nella sua quotidianità frenetica di sei settimane vissute a Rafah, nel sud di Gaza, dove sembra essere perduta ogni traccia di umanità: spostamenti continui in cerca di una sicurezza effimera, rumori assordanti. Perché se anche si volessero chiudere gli occhi, il rumore continuo dei droni non lascia scampo: «Il ronzio dei droni continua incessante e il tempo viene scandito dal boato delle esplosioni, dal suono dei clacson e dal sibilo di qualche missile» (p. 77).
L’insicurezza, il rumore, l’urgenza, tutta la vita dell’A. è assorbita da un mondo dove pare non ci siano speranza, giustizia, pace. L’impotenza, la rabbia, la frustrazione, sono ben evidenti in un testo scritto di getto, un diario riempito con la fretta di segnare i ricordi ancora caldi di emozioni. Ci sono i nomi dei volontari e di chi ha deciso di fermarsi là, servendo il proprio popolo a costo della propria vita. Ci sono le voci di chi ormai non ha più nulla.
Se il testo di Nicolosi apre una finestra su un mondo variegato di colori e vite, facendoci intravedere la complessità di una società così lontana e così vicina, il libro della Marchiò ci spiazza, perché descrive invece la realtà drammatica della violenza, con i suoi effetti di dolore e morte, davanti ai quali anche un medico si ferma.
In un mondo in cui spesso si è spinti a schierarsi a favore o contro qualcuno, ci rimane l’opzione di puntare ancora, nonostante tutto, sull’umano, su quanto c’è di comune tra noi, sulle storie, i sogni, l’interiorità. Partire dalle ferite comuni, dall’essere bisognosi di cura e attenzione, dalla dignità inalienabile di ciascuno, è il messaggio di pace che richiama anche noi, distanti, comodi nella nostra sicura quotidianità.