C’era una volta a... Hollywood

di Quentin Tarantino
Sony Pictures Entertainment, USA-UK 2019, commedia-drammatico, 159 min
Scheda di: 

La trama del film

Nella Los Angeles del 1969, Sharon Tate, promettente attrice americana e moglie di Roman Polanski, è la nuova vicina di Rick Dalton, star della televisione in declino. Grazie alla prossimità di questa coppia famosa, Dalton e il suo stuntman e grande amico Cliff Booth sperano di sfondare più facilmente nel mondo del cinema.

 

Tra i film più attesi del 72° Festival di Cannes figurava l’ultima fatica di Quentin Tarantino, C’era una volta a… Hollywood. Non solo per il cast di forte richiamo, che riunisce per la prima volta Leonardo DiCaprio e Brad Pitt, ma soprattutto perché si tratta del nono film del regista statunitense, che qualche anno fa aveva preannunciato di volersi fermare a dieci pellicole. Quasi a voler dar credito a questa promessa, Tarantino ha girato una delle sue opere più ambiziose e definitive. Il C’era una volta del titolo ne fornisce infatti una prima chiave di lettura: una fiaba ambientata nella terra dei sogni per eccellenza, Hollywood, e una parentesi onirica volta a celebrare il cinema come fabbrica dell’immaginario contemporaneo.

Realtà e finzione si mescolano senza soluzione di continuità in C’era una volta a… Hollywood, perché la storia dei due amici protagonisti, Rick Dalton e Cliff Booth, poggia su un episodio realmente accaduto. Non è la prima volta, d’altra parte, che Tarantino si accosta alla Storia con la S maiuscola, rimettendola in scena attraverso la lente deformante del suo tipico registro pulp e della sua ironia: lo aveva già fatto con Bastardi senza gloria e Django Unchained. Nel primo titolo aveva immaginato una sorta di rivincita sul nazismo ad opera di alcuni giustizieri ebrei, ipotizzando anche un’altra fine per Hitler; nel secondo, invece, aveva raccontato la rivalsa di un afroamericano sullo schiavismo bianco. Il ristabilimento della giustizia, in entrambi i casi, passava per il concetto di vendetta, compiuta attraverso una violenza esplicita e volutamente antirealista, che consentiva allo spettatore di aderire al gioco senza prenderlo troppo sul serio.

Tanto queste pellicole erano racconti di pura fantasia, che manovravano gli spunti tratti dalla realtà a favore della fiction, così in C’era una volta a… Hollywood la realtà viene invece rievocata con precisione, senza tralasciare nomi e cognomi tratti dalla cronaca del 1969. La visione del film, che potrebbe sembrare un semplice excursus sulla vita di due attori a Hollywood – la trama si svolge in due giorni, tra riprese, pomeriggi al cinema, cene con produttori e party – è infatti attraversata dall’inquietante attesa da parte dello spettatore di qualcosa di tragico che potrebbe avvenire da un momento all’altro.

Vedere in scena Margot Robbie nei panni di Sharon Tate rievoca immediatamente alla mente il massacro perpetrato da Charles Manson con gli adepti della sua setta ai danni di cinque persone, tra cui la stessa moglie di Roman Polanski, uno degli episodi più traumatici di tutti gli anni ’60, in quanto sancì il risveglio definitivo dal sogno della controcultura, che con la sua promessa di libertà e armonia aveva sedotto migliaia di giovani. Manson, con la spirale di omicidi compiuti insieme ai suoi seguaci, scosse profondamente l’opinione pubblica e disorientò coloro che fino a quel momento avevano considerato la ribellione al sistema come una fonte di rinnovamento per la società. La sua ideologia pregna d’odio, soprattutto verso i neri, nasceva infatti anche da un’interpretazione distorta di alcuni simboli della cultura giovanile. A partire dalla canzone dei Beatles Helter Skelter, evocata durante i delitti per via del suo testo, che secondo Manson preannunciava una “guerra tra razze”. Manson era solito presentarsi ai suoi adepti come una figura paterna, un amante o un mentore, facendo leva sul fascino esercitato in quel periodo dal mondo hippy e da alcuni suoi elementi caratterizzanti, come la vita comunitaria, il consumo di droghe allucinogene e l’esoterismo. Oltre che emotivo, lo shock causato dai crimini della setta fu dunque culturale. La giornalista e scrittrice Joan Didion, nel suo saggio The White Album, parlò degli omicidi di Cielo Drive come di un evento che suscitò in lei e in molti altri intellettuali dell’epoca l’impressione che il mondo avesse smesso di avere un senso e stesse andando in pezzi. L’industria popolare avrebbe continuato a cercare di attribuire un significato all’accaduto, attraverso una serie di produzioni che si interrogavano sul drammatico passaggio dalle istanze di pace e amore alla violenza più bestiale. Nei mesi scorsi negli Stati Uniti, per il cinquantennale dalla strage, ad esempio, sono usciti ben due film sugli stessi fatti, Charlie Says e The Haunting of Sharon Tate.

Tuttavia C’era una volta a… Hollywood prende le distanze da questi titoli perché non intende indagare i motivi che portarono agli omicidi, quanto la significativa coincidenza che fece di Hollywood tanto la sede in cui l’immaginazione trovava una sua applicazione industriale, quanto il luogo in cui era possibile perdersi per sempre. A discapito delle aspettative dei fan di Tarantino, la componente di azione nel film è molto limitata, perché il racconto si concentra sulla banale routine degli attori che sognano di fare carriera a Hollywood, fatta perlopiù di incontri e dialoghi con altri personaggi. Ma sui sogni e le disillusioni dei protagonisti sentiamo costantemente incombere l’ombra inquietante del male, pronto a manifestarsi da un momento all’altro. Un senso di pericolo che sembra mettere in guardia dai rischi insiti nella società dello spettacolo e nel mondo delle immagini, per il distacco dalla realtà che inevitabilmente favoriscono. Hollywood nel film si configura quindi come una sorta di rifugio, la meta perfetta per chi voglia fuggire dai propri fallimenti – come i protagonisti – o da una complessità di fronte alla quale ci si sente disarmati, come molti giovani – spesso con situazioni di disagio psichico e sociale – che in Manson videro una sorta di guida.

Quasi in contrasto con questa visione, C’era una volta a... Hollywood rappresenta anche un’ode al cinema commerciale. Qui l’ossessione tarantiniana per la settima arte e la sua preservazione conduce addirittura a ricreare minuziosamente, con estrema attenzione per i dettagli scenografici, un mondo e un’epoca nei quali il regista avrebbe sognato di vivere e lavorare. E, soprattutto, nel film si ribadisce che il cinema rimane il medium che, ancora oggi, può consentire all’uomo di rimodellare il proprio vissuto, e perché no, di agire sulla Storia, provando addirittura a mutare il corso degli eventi, come avviene per la strage nella villa di Polanski. Senza svelare dettagli che rovinerebbero la sorpresa durante la visione – il regista ha espressamente chiesto con una lettera ai giornalisti di non guastare il piacere dell’imprevisto –, si può dire che nell’intreccio di C’era una volta a… Hollywood tutto sia concesso: dalla creazione di finte sequenze di film mai realmente girati, fino alla concezione di un nuovo finale per un fatto di sangue ormai consegnato alle cronache dell’epoca.

Quello che davvero sorprende è l’assonanza di questa operazione con ciò che in questo momento storico stanno facendo anche molti altri importanti prodotti cinematografici e audiovisivi. Pensiamo solo al proliferare, nelle sale di tutto il mondo, di sequel (seguiti di storie già raccontate), reboot (riscritture da zero di narrazioni già note) e spin-off (racconti che approfondiscono il vissuto di personaggi secondari di altri film). Si tratta di un improvviso impoverimento creativo, per cui l’industria del settore fa sempre più fatica a trovare nuovi soggetti, o di un fenomeno dal significato più profondo? Una risposta, forse, la forniscono due dei successi più clamorosi di questi anni: la serie dell’artista e regista David Lynch, Twin Peaks 3, sul fronte dell’autorialità, e il recente Avengers: Endgame, sul fronte del cinema mainstream. In entrambi i casi si assiste a una sorta di riscrittura di una storia già nota, sfruttando abilmente il digitale per far agire i personaggi all’interno di scene girate molto tempo prima, in modo da cambiarne l’esito. Nella sofisticata opera a puntate di Lynch – per cui parlare di prodotto televisivo sarebbe riduttivo – il finale della popolare serie di 25 anni prima viene rimaneggiato, facendo viaggiare nel tempo il protagonista ormai invecchiato, per salvare la giovane Laura Palmer, uccisa brutalmente negli anni ’90. Nel film Marvel, invece, i supereroi hanno la possibilità di cambiare le loro storie personali, raccontate nei precedenti episodi della saga.

In tutte queste operazioni trova espressione una tensione molto contemporanea: il desiderio di agire sul tempo per modificare il corso degli eventi. E, dunque, l’illusione di poter modellare il passato per creare nuove concatenazioni tra ciò che è stato – e dovrebbe rimanere inalterabile – e ciò che è. Il viaggio nel tempo, topos classico della fiction, è l’espressione più evidente e comprensibile della difficoltà umana di accettare quello che l’esistenza ha in serbo per noi. Eppure la configurazione che questo espediente narrativo sta assumendo nel racconto di finzione implica una sfumatura diversa, intrecciandosi con nuove paure e nuove tensioni politiche e sociali. Nel momento in cui i fatti vengono concepiti come un materiale assemblabile a proprio piacimento, infatti, emergono con facilità fenomeni e derive che stanno interessando il nostro tempo: pensiamo, ad esempio, alle teorie antiscientifiche o allo strisciante revisionismo storico che oggi porta qualcuno a sottovalutare i segnali di un nascente clima di xenofobia e intolleranza. Ben vengano, allora, registi come Tarantino, che ci rendono consapevoli di questa paura dell’ineluttabile per aiutarci, in fondo, ad affrontarla. Perché nemmeno il fascio di luce di un proiettore può far sbiadire i traumi che vorremmo cancellare. Ma forse, illuminandoli, può aiutare a leggerne il senso, all’interno della Storia e della propria esistenza.

Ultimo numero

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza