Un viaggio personale e collettivo
quello narrato dalla giornalista
Valentina Furlanetto nel suo
nuovo libro Cento giorni che non
torno. Storie di pazzia, di ribellione
e di libertà. Un racconto diacronico,
spaziale e culturale sul tema della
salute mentale, di cui sembra non
interessarsi nessuno. Tuttavia, come
nota l’A., «sicuramente non si
fa abbastanza per garantire a tutti
la salute mentale e per risolvere i
problemi che affliggono le persone
con disturbi mentali, ma se ne
discute molto, se ne parla molto,
se ne scrive molto, a volte anche a
sproposito, soprattutto sul web e
sui social» (p. 226).
Le storie che si intrecciano sono
tre: il presente dell’A., che scopre
che nel 2023 c`è ancora chi muore
legato a un letto d’ospedale in
seguito a un trattamento sanitario
obbligatorio (TSO); la sua infanzia,
con gli incontri con la signora
Rosa di Guia di Valdobbiadene; la
vicenda di Franco Basaglia, celebre
psichiatra del Novecento. Queste
ultime due storie hanno diversi
aspetti in comune: sia Franco sia
Rosa sono veneti, sono nati nel
1924 e hanno avuto a che fare
con l’ambiente del manicomio. La
differenza è che l’uno l’ha vissuto
come luogo di lavoro e possibilità
di cambiamento, l’altra come una
reclusione ammantata da cura.
Il nome di Basaglia richiama alla
memoria la legge del 1978 che
porta il suo nome, nota come quella
che ha chiuso i manicomi. Ma la
storia è come sempre più complicata
e l’A. ci fornisce le informazioni
per andare oltre la superficie: da
dove nasce la necessità di compiere
questa scelta? Perché la legge è
stata identificata con Basaglia? La
legislazione è stata preceduta da
una sperimentazione valida?
Innanzitutto è necessario capire
che cosa fossero i manicomi, che
di certo non sono paragonabili ai
reparti di psichiatria odierni: luoghi
«di isolamento e separazione dei
malati in quanto pericolosi, sia in
senso fisico che morale» (p. 24),
dovei diritti dei pazienti non erano
garantiti. Questo lo sappiamo dalle
testimonianze dirette, come quelle
di Rosa e Basaglia o di diversi autori
che per tutto il Novecento richiamavano
l’attenzione pubblica all’ignominia
di tale condizione.
Leggendo questi resoconti, sembra
proprio che, per salvaguardare
la società, si togliesse l’umanità alla
persona diversa, povera, strana o
davvero malata. Infatti «a Gorizia la
prima cosa che Basaglia scopre è
che non tutti i “matti” sono “matti”,
molti sono solo poveri, mendicanti,
disadattati, alcolisti, dimenticati, orfani,
abbandonati, residui di guerra,
solitari, strambi, tutti precipitati in
fondo al pozzo del manicomio» (p.
123). A questi non servivano cure
come l’elettroshock, le docce fredde,
camicie di forza, ecc. Serviva
ridare loro la dignità.
Per questo era necessario un
cambiamento radicale nel concepire
il manicomio: non più un
luogo dove isolare le persone, ma
dove tentare di curarle in modo
olistico, arrivando così a capire chi
davvero aveva necessità di cure e
chi solo di accoglienza. Il racconto
di questo cambiamento è ricco di
conquiste e fallimenti, amici e detrattori,
accompagnato nel testo da
numeri, testi e documenti.
Nell’analisi del percorso della
psichiatria l’A. non manca di fare
un approfondimento sulla scoperta
e sull’uso degli psicofarmaci, che
sono stati fondamentali per la riuscita
dell’azione di Basaglia nel trattare
i pazienti psichiatrici, ma non
si possono nascondere gli interessi
economici delle case farmaceutiche
che sembrano cercare di massimizzarne
il consumo (pp. 187-191).
Il libro della Furlanetto inizia e si
conclude ai giorni nostri, con una
maggior consapevolezza di come
sono cambiate le cose riguardo
alla salute mentale, da come era
concepita a come veniva “curata”. E
lo dobbiamo a persone intraprendenti,
rivoluzionarie, come Franco
Basaglia. Diventiamo anche consapevoli
del rischio di trattare tutto
come malattia e non come fase
normale della vita, che ci presenta
gioie e momenti di smarrimento
o fatica. E veniamo richiamati con
l’esempio di Rosa, Franco e molti
altri, a considerare tutti come persone,
cercando di andare oltre le
apparenze. Se infatti i manicomi
fatti di mattoni e calce non esistono
più, non mancano dinamiche simili
di segregazione del diverso, della
ricerca della normalizzazione a tutti
i costi, dello stigma a chi è lento o
bizzarro o non funzionale alla società
contemporanea. E spesso la
risposta è invisibile, fatta di parole,
comportamenti o farmaci.