Dal concilio Vaticano II la riflessione sul ruolo dei laici nella Chiesa non cessa di essere approfondita e alimentata da nuovi contributi. L’apporto dato dal cardinale Carlo Maria Martini resta tutt’oggi estremamente prezioso e merita di essere studiato affinché non si riduca a formule stereotipate. Da qui l’interesse di approfondire il pensiero martiniano sulla figura dei laici e sui movimenti nati nella stagione postconciliare, oltre al suo modo di concepire il dialogo con chi si definisce “laico” nel senso di non credente e fuori dalla Chiesa.
Il dittico “Carlo Maria Martini e i laici” a un primo sguardo si impone senza bisogno di ulteriori spiegazioni: con il suo magistero e la sua opera il Cardinale, arcivescovo di Milano dal 1980 fino al 2002, si è distinto di certo per una fattiva promozione dei fedeli laici. Più volte, infatti, ha richiamato la piena dignità in Cristo di tutti i credenti, uomini e donne, in quanto membra vive della Chiesa-popolo di Dio. Si è poi adoperato perché ogni credente avesse largo accesso alle Scritture, nella scia della costituzione dogmatica Dei Verbum (capitolo VI). Ha, infine, incoraggiato la testimonianza evangelica nelle pieghe della vita sociale e civile. Questi motivi, tuttavia, non ci esimono da un lavoro di approfondimento, affinché ciò che sembra evidente a un primo sguardo non divenga un vacuo luogo comune. Sono tre, in particolare, i filoni che richiedono di essere attentamente esaminati per avere una comprensione più precisa e profonda del pensiero martiniano sui laici.
La figura dei laici secondo Martini
Scorrendo la monumentale produzione letteraria di Martini – che raccoglie in larga parte i diversi interventi orali pronunciati in circostanze occasionali – ci si imbatte in un uso tutto sommato parco e trattenuto dell’espressione “laici”, per indicare i comuni fedeli cristiani. La qual cosa – va da sé – è un segnale di una scelta intenzionale, niente affatto accidentale.
In un intervento del 1969, padre Martini si poneva un duplice interrogativo: «Che cosa vuol dire essere cristiani? Che cosa significa testimoniare Cristo nel mondo di oggi?», istituendo una perspicace corrispondenza fra cristiano e testimone (ora in Martini 2016, 35). In breve, si potrebbe concludere che il laico altri non è che il “cristiano testimone”. Una tale folgorante equazione coglie l’apporto basilare della costituzione dogmatica Lumen gentium (LG), laddove i padri conciliari puntarono a riconsiderare la figura del christifidelis nel suo riferimento obiettivo a Gesù Cristo: «Tutte le membra devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in esse formato» (LG, n. 7). Un tale “ricentramento cristologico” comporta una determinazione positiva della figura del cristiano: ciò che conta nell’esperienza credente è di essere afferrati da Cristo, nell’attesa della manifestazione della sua gloria, quando ogni cosa sarà trasformata nel Regno di Dio. Una simile determinazione del cristiano non può essere occultata o ridimensionata da nessun’altra definizione legata a diversificazione di ufficio o di comportamento. Quindici anni più tardi, il cardinale Martini puntualizzava, con un filo di delusione, che
Le profonde intuizioni del Vaticano II sulla realtà della Chiesa non sono forse ancora pienamente sviluppate. Si è colto il passaggio dalla Chiesa vista prevalentemente come una società alla Chiesa considerata come mistero, segno, corpo di Cristo, comunione con Cristo. E questo passaggio è certamente importante. Per esempio, per stare al tema che ci interessa, ha permesso di superare una concezione negativa o solo contrappositiva dei laici, che erano definiti puramente come “non chierici”. Oppure si assegnavano ai laici i compiti della presenza cristiana nel mondo, mentre al clero venivano riconosciuti i compiti dell’edificazione della comunità cristiana, quasi ci fosse una divaricazione. Ora invece la visione della Chiesa come comunione di tutti i credenti in Cristo ha fatto intravvedere la partecipazione attiva dei laici all’edificazione della Chiesa e ha proposto il servizio del mondo come compito di tutti i credenti, anche di quelli che non sono direttamente impegnati nelle realtà temporali (Martini 1985, 335 e ss.).
Del resto Martini aveva avuto modo di osservare già qualche anno prima, commemorando il sacrificio dell’amico Vittorio Bachelet, come nel Concilio – più precisamente nel cap. IV di Lumen gentium e nel decreto Apostolicam actuositatem – si fosse insistito sull’essenza del cristiano laico («indole secolare») e sulle sue note teologali costitutive e metafisiche, mentre negli scritti neotestamentari si procedesse piuttosto a definire ogni credente per il suo fare o essere chiamato a fare nella Chiesa e nel mondo: «Il Vaticano II [nella Lumen gentium, N.d.R.], anteponendo programmaticamente la comprensione del mistero del popolo di Dio nel suo insieme a quella sia della gerarchia, sia dei laici, sia dei religiosi, sia dei beati e dei fedeli defunti, ci invita ad una fedele aderenza alla presentazione neotestamentaria, a trarne ispirazione, ad accoglierne la larghezza promettente di aspettative» (Martini 1982, 225).
Per il biblista Martini non è di poco conto dover registrare che nel Nuovo Testamento non compaia mai il termine “laici”; al suo posto nei vangeli e negli scritti apostolici ricorrono espressioni quali eletti, discepoli, santi, soprattutto fratelli, in considerazione del fatto che la vocazione cristiana è una cosa comune, che appartiene indistintamente a tutti nel popolo di Dio. Ed è lo stesso Dio che opera «tutto in tutti» (1Corinzi 12,6). In realtà, il termine laicus è attestato nella traduzione latina delle Scritture nota col nome di Vulgata, ma non per designare persone, bensì cose inanimate (ciò che è “profano”). Martini poi conosceva bene e condivideva la tesi del celebre saggio del suo confratello Ignace de la Potterie, che nel 1959 contestò il libro Jalons pour une Théologie du laïcat del teologo domenicano Yves Congar (1966) per la derivazione dell’aggettivo sostantivato laikos da laos tou Theou (popolo di Dio) e il modo in cui era impiegato (laico come membro del popolo di Dio), dato che il suffisso greco -ikos ha una valenza categorizzante e connotativa, significando piuttosto chi è sottomesso e suddito nei confronti di un sovrano (de la Potterie 1967).
In altra occasione, per la commemorazione del prof. Giuseppe Lazzati a un anno dalla morte, prendendo spunto dall’episodio dell’unzione a Betania (secondo la tradizione dei vangeli di Marco e Matteo), Martini si chiedeva: «Chi è il discepolo, chi è il cristiano, uomo e donna, che matura in un cammino spirituale?». La risposta dopo un articolato esercizio di esegesi spirituale suonava così: «Alla luce dell’icona evangelica possiamo ora rispondere che è colui che non pretende di andare oltre le proprie possibilità ma che fa ciò che è in suo potere con tutto sé stesso, con originalità, dedizione, disinteresse, identificandosi con Gesù, anche senza pensarci molto, perché è il Signore stesso che lo trascina nel suo vortice spirituale» (Martini 1988, 140).
In buona sostanza, pare che nel magistero martiniano l’uso corrente dell’espressione “fedeli laici” voglia sollecitare una promozione di tutti alla maturità ecclesiale, accompagnata però dalla convinzione che quel termine è logorato, per cui oggi nell’ecclesiologia postconciliare appare spropositato lo sforzo per definire uno stato di vita particolare o addirittura per reclamare la definizione di una “teologia del laicato”, «che per riconoscere uno spazio al laico nella Chiesa sembra profilarne il compito specifico nell’animazione cristiana del mondo. Detto in modo provocatorio, pare che il laico per trovare la sua specificità ecclesiale debba traslocare nel mondo per “animarlo cristianamente” o, secondo l’altra formula, per ordinare le cose del mondo secondo Dio. In tale slittamento consiste la “questione del laico”, ma non sta nel déplacement del laico nel mondo la sua soluzione» (Brambilla 2016, 6). La lezione del cardinale Martini sollecita una riflessione che non si attardi alla ricostruzione di una “specificità del laico”, ricercando forsennatamente un’essenza da isolare, dovendo piuttosto interpretare un vissuto storico in cui deve cimentarsi la testimonianza credente.
La stagione dei movimenti ecclesiali: luci e ombre
Un altro aspetto da prendere in considerazione quando si affronta il capitolo del laicato, ancora interno alle mura ecclesiastiche, è quello dei movimenti e delle nuove aggregazioni ecclesiali, la cui vitalità in genere si fa risalire – forse un po’ affrettatamente – all’influsso del Vaticano II (cfr Faggioli 2008 e 2013). Sui motivi e gli esiti di una tale fioritura, che ha comportato non poche tensioni e incomprensioni con l’associazionismo tradizionale e con il tessuto parrocchiale del cattolicesimo italiano, Martini raccomandava sempre di procedere con estrema vigilanza e oculato giudizio.
Va ricordato che a partire dagli anni ’60 in ambito ecclesiale alcuni circuiti di grande valenza educativa e di presenza dei cattolici nel sociale hanno iniziato a sperimentare crescenti difficoltà; basti pensare al progressivo ridimensionamento dei pilastri dell’associazionismo laicale (Azione cattolica, scout, ACLI, ecc.), votati tradizionalmente a una testimonianza cristiana anche nelle realtà civili, nonché alla crisi conosciuta dalle unioni cattoliche professionali, esplicitamente dedicate a formare una coscienza cristiana adulta nel mondo del lavoro e delle professioni. Nell’immediato postconcilio si è però avuta l’effervescente stagione dei movimenti e delle nuove aggregazioni ecclesiali (Camisasca e Vitali 1982 e 1987; Pontificio Consiglio per i Laici 1999, 2000 e 2007). In realtà, non tutti questi nuovi soggetti ecclesiali si richiamano espressamente al nuovo paradigma conciliare; tutti però si autocomprendono come frutto di una ventata dello Spirito che – proprio grazie alla loro vitalità – sarebbe da interpretare come indice di una Chiesa in movimento, o addirittura di una Chiesa che è movimento. Una tale affermazione è più retoricamente declamata che puntualmente argomentata ed esibita, tuttavia un effetto è indiscutibile: nel postconcilio si è assistito all’emergere di un conflitto fra la dimensione istituzionale della Chiesa e quella carismatica, che qualcuno vorrebbe un po’ affrettatamente far risalire alla dialettica fra principio petrino e principio mariano (Leahy 1996).
Caratteristica pregnante di ogni movimento ecclesiale è la libera opzione nell’appartenenza, così che fra i partecipanti sussiste un alto indice di consenso e di reciprocità; mentre la leadership diviene un forte coibente del gruppo, connotato spesso da tratti di autosufficienza e di autoreferenzialità. Non a caso, i singoli movimenti ecclesiali finiscono sovente per assolutizzare la propria esperienza, reclamandone la natura esclusiva e totalizzante, col rischio di ritenersi quale unica interpretazione o realizzazione autentica della Chiesa.
Il cardinale Martini avvertì per tutto il suo lungo episcopato la necessità di fare chiarezza su questo nodo nevralgico della partecipazione dei credenti alla vita della Chiesa e certamente maturò sul campo la convinzione di assegnare un giudizio positivo di fondo sulla qualità buona e sanamente popolare del tessuto ordinario della Chiesa ambrosiana, dunque sull’effettiva capacità della istituzione parrocchiale di essere vero strumento di santificazione del popolo dei credenti. Per questo ammoniva nel giugno del 1986:
Per quanto riguarda le aggregazioni che stanno sinceramente sforzandosi di collocarsi nel quadro della Chiesa locale, si richiede sempre da esse di non scambiare vivacità con protagonismo, di sapere qualche volta abbassare un po’ i cartelli, di saper fare il bene anche senza diritti d’autore: perché è più importante che il bene si faccia rispetto al fatto che esso ci venga attribuito. Dovremmo sempre ricordare che il bene fatto dagli altri vale almeno quanto il nostro: altrimenti siamo lontani dal Regno (Martini 1987, 311).
A giudizio del Cardinale le cause della frammentazione e della conflittualità che contrassegnano la cattolicità italiana non sono tanto da ricercare in divergenze di natura dottrinale, bensì sul fronte della diagnosi sulla situazione religiosa e morale del nostro tempo. Non deve perciò sorprendere che fenomeni quali la crescente secolarizzazione, il collasso delle evidenze etiche, la deriva soggettivistica e l’assolutizzazione delle esperienze spingano i diversi soggetti religiosi a letture non sempre convergenti su come reagire da un punto di vista credente alla complessità del mondo postmoderno. La raccomandazione di Martini è di non dire o fare nulla nei giorni difficili che non proceda da un autentico spirito evangelico, apprezzando le virtù dell’umiltà e della mansuetudine, della misericordia e del perdono. Come può la Chiesa diventare anima vitale di un popolo, mantenendo nello stesso tempo il legame con le sue radici neotestamentarie e con la Chiesa universale e particolare, per ritrovare il fondamento, l’origine di tutto il suo agire, il quadro nel quale inserirsi per un comune cammino ecclesiale?
L’anno successivo in autunno si svolse il Sinodo dei vescovi, segnatamente la VII Assemblea generale ordinaria (1-30 ottobre 1987) intitolata «La vocazione e la missione dei laici nella Chiesa e nel mondo». Martini vi prese parte (come a tutti i Sinodi dei vescovi celebrati durante il suo episcopato) e fece un intervento durante i lavori in assemblea. Ecco un ampio stralcio:
Principale compito pastorale di fronte alle nuove aggregazioni, come hanno già detto autorevolmente alcuni Padri sinodali, è il discernimento. Esso non significa solo valutazione e giudizio, ma anche accompagnamento in vista di una inserzione cordiale e organica nell’insieme dell’attività formativa e missionaria della Chiesa. Esso richiede un certo tempo e una buona volontà reciproca. Talora si vorrebbe farne a meno, appellandosi alla nativa bontà del carisma, che il vescovo dovrebbe unicamente riconoscere e accogliere. Si dice «se il vescovo non vuole che esistiamo, siamo pronti a morire; ma non ci si chieda di cambiare nulla del nostro carisma». Ma così si è già deciso a priori che il proprio carisma è divino e intoccabile. Talvolta si sente anche invocare il principio di Gamaliele: «i lasci spazio a queste realtà; se non sono da Dio, cadranno da sole». Ma si dimentica che Gamaliele non era un vescovo, e che l’autorità ecclesiastica non può rinunciare alla responsabilità del governo pastorale. Parecchi Padri hanno già richiamato validi criteri di discernimento. Io vorrei segnalare due distinzioni preliminari. Va fatta una distinzione tra le aggregazioni che hanno un compito soprattutto formativo e quelle che propongono un progetto pastorale globale e talora anche un progetto di società. Nel primo caso il discernimento si eserciterà sulla dottrina e la disciplina liturgica, morale e ascetica. Nel secondo caso il “discernimento-accompagnamento” deve far sì che una aggregazione adatti il proprio progetto intenzionalmente globale alla realtà concreta di una Chiesa particolare e si inserisca con vera collaborazione in un piano pastorale più ampio. Nessun richiamo al “carisma” può legittimare una “esenzione” rispetto alle autorità a cui spetta dirigere il cammino comune. La seconda precisazione riguarda il contesto stesso di “carisma”. In quello che oggi, forse con troppa facilità, si chiama carisma di un movimento o di un gruppo occorre distinguere almeno quattro cose: le persone che compongono il gruppo, spesso generose e sacrificate; il germe ideale che ne sostiene l’azione, per lo più valido; l’ideologia o sistema dottrinale che viene sviluppandosi attorno all’intuizione di fondo; e infine la prassi concreta: pastorale, formativa, liturgica, talora anche sociale, economica, civile. Il discernimento dovrà tener presenti tutti questi aspetti, e non limitarsi alle intenzioni o alla bontà soggettiva delle persone, e verificare, ad esempio, se la prassi dà segni di esclusivismo, oppure è volentieri aperta alla collaborazione per le imprese comuni; se realizza in pratica i valori evangelici della povertà e dell’umiltà, o si lascia tentare da logiche di potere ecc. In ogni caso si dovrà ricordare che c’è una sola perla preziosa, intoccabile e immutabile: il Regno di Do e in esso la carità (Caprile 1989, 319 e ss.).
Quello che pare a Martini di dover auspicare come rimedio alla tendenziale autoreferenzialità del singolo gruppo, da una parte, è
la docilità a riconoscere l’esercizio di un discernimento da parte dell’autorità ecclesiale competente, nonché l’aprirsi a un franco e serrato dialogo con le altre espressioni di Chiesa, a partire dalla dimensione popolare e istituzionale che connotano la vita diocesana e parrocchiale; dall’altra parte, è urgente attivare un confronto con le forme ordinarie della esperienza civile che accomunano tutti, credenti e non credenti.
A partire dalla Pentecoste del 1998 il cardinale Martini promosse una serie di incontri per i membri delle associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali per favorire un fruttuoso confronto in cui ciascuna realtà potesse coltivare il desiderio di essere a servizio di tutto il popolo di Dio e non soltanto della propria aggregazione. Certamente ciascuno può in modo legittimo sostenere che svolge il proprio servizio dal punto in cui si trova e interpreta la realtà, ma al contempo occorre riconoscere che il servizio va compiuto leggendo la realtà con gli altri fratelli e sorelle nella fede, facendosi carico della responsabilità di ciascuno per l’altro e di tutti per l’insieme. Nell’anno giubilare, infine, Martini osservava che i grandi raduni piacciono molto ai mass media perché risultano facili da trasmettere, ma il rischio di queste manifestazioni è di non incidere in profondità. In questo senso invitava a raccogliere la sollecitazione di Giovanni Paolo II, che raccomandava di dedicare maggiore attenzione e cura agli eventi celebrati a livello di Chiesa locale, di decanato, di comunità parrocchiali.
Credenti e non credenti oppure pensanti e non pensanti
Un ultimo approfondimento da svolgere è sull’uso del termine “laici”. A Martini non sfuggiva che il suo impiego – sia ad intra sia ad extra – fosse pregiudicato da un’irriducibile equivocità semantica, foriera di una paradossale ambiguità. Da un lato, nel lessico ecclesiastico sono definiti laici i comuni fedeli, per differenza da quanti hanno ricevuto gli ordini sacri o abbracciato la vita consacrata (laico versus chierico); dall’altro lato, nell’uso dei mass media con laici si definiscono piuttosto quelle persone che, in modo più o meno ostentato, fanno riferimento a un orizzonte di valori antitetico, o comunque espressamente autonomo, rispetto al modello della nostra tradizione cristiana (laico versus cattolico), introducendo così uno scarto fra istituzione religiosa e ordinamento civile.
È proprio con i “laici” così intesi, con quanti ritenevano di trovarsi “fuori delle mura” della cittadella ecclesiastica, che nei suoi anni di episcopato Martini si è impegnato a entrare in dialogo e in confronto. Il suo rapporto con il mondo intellettuale laico, con quegli esponenti della cultura che non accettavano di liquidare la religione cristiana quasi si trattasse di un sintomo di superstizione infantile, fu straordinario. La sua proposta mirava a “stanare” questi intellettuali, perché si interrogassero su questioni di ordine spirituale, non limitandosi a ragionare sui massimi principi, ma riflettendo anche su questioni molto concrete dell’esperienza umana e civile. In altre parole, egli riteneva che affrontare un dialogo esplicitamente sui contenuti dogmatici della fede cristiana avrebbe rischiato di arenarsi su rigide contrapposizioni, mentre si trattava di mettere a fuoco quei dinamismi che attanagliano la coscienza di ogni uomo e donna: il senso di precarietà della propria esistenza, l’inquietudine verso il futuro, la diffidenza verso gli altri, l’incapacità di affidamento. In positivo, Martini riteneva di promuovere il valore dell’ascolto come esercizio volto a porsi domande e «a verificare quelle che crediamo essere le nostre risposte»; un ascolto che non si limitasse all’ambito del vissuto esistenziale, per aprirsi ai legami e alle relazioni sociali, fino a comprendere i ritmi della città e della convivenza civile, muovendo da quegli interrogativi che non trovano risposta nella consuetudine dell’ethos e nell’ambito della ricerca scientifica, per poi pervenire finalmente alla domanda prioritaria, quella su Dio.
In un convegno tenuto presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale nel 1993 Martini ritornò sul motivo che lo aveva convinto a inaugurare sei anni prima la Cattedra dei non credenti, rivolta sia a persone dichiaratamente credenti sia ai cosiddetti “non credenti”: «Qualcuno potrebbe chiedersi; esistono davvero le categorie di credenti e di non credenti? Io non ho voluto approfondire tale tema. Mi sono invece fatto forte di una parola di Norberto Bobbio che disse un giorno: “Per me non ci sono credenti o non credenti, ma solo pensanti o non pensanti”» (Martini 1994, 460).
La distinzione “credente”-“non credente”, lungi dall’identificare due differenti schieramenti ideologici, chiede di essere restituita alla dialettica paolina “uomo vecchio-uomo nuovo”, laddove per indicare l’aspetto negativo l’Apostolo usa il termine sarx, cioè carne. L’uomo, in quanto peccatore, si ritrova in balia di forze estranee, nella sfera della carne: quest’ultima non costituisce la corporeità, bensì l’egoismo, quell’istinto primordiale che portò i progenitori della Genesi a diffidare dell’amore provvidenziale del Creatore. Paolo pensa come unitaria l’immagine dell’uomo: è corpo (soma), cioè persona storica sottoposta alla tensione di due principi, la carne (sarx) e lo spirito (pneuma). Nel presente l’individuo si trova immerso in una condizione di crisi, in una situazione intermedia tra la carne e lo spirito, tra l’uomo vecchio e l’uomo nuovo. Nella Lettera ai Romani l’umanità è definita secondo una polarità opposta ma irriducibile: uno può esser secondo carne o secondo spirito. In quanto portiamo il segno di Adamo siamo sotto la carne, in quanto portiamo il segno di Cristo siamo sotto lo spirito. Questa dialettica contraddistingue ogni persona: ciascuno è contemporaneamente mosso dalla carne e dallo spirito; c’è l’influsso dell’istinto negativo primordiale che domina e ha pensieri di morte, e c’è l’influsso positivo dello spirito che ha pensieri di vita e di pace. Già nella prima lettera pastorale La dimensione contemplativa della vita del 1980, l’Arcivescovo aveva sottolineato:
Perciò l’uomo nuovo, come il Signore Gesù che all’alba saliva solitario sulle cime dei monti (cfr Marco 1,3; Luca 4,42; 6,12; 9,28), aspira ad avere per sé qualche spazio immune da ogni frastuono alienante, dove sia possibile tendere l’orecchio e percepire qualcosa della festa eterna e della voce del Padre. Nessuno fraintenda, però: l’uomo “vecchio”, che ha paura del silenzio, e l’uomo “nuovo” solitamente convivono, con proporzioni diverse, in ciascuno di noi. Ciascuno di noi è esteriormente aggredito da orde di parole, di suoni, di clamori, che assordano il nostro giorno e perfino la nostra notte; ciascuno è interiormente insidiato dal multiloquio mondano che con mille futilità ci distrae e ci disperde. In questo chiasso, l’uomo nuovo che è in noi deve lottare per assicurare al ciclo della sua anima quel prodigio di “un silenzio per circa mezz’ora” di cui parla l’Apocalisse (8,1); che sia un silenzio vero, colmo della Presenza, risonante della Parola, teso all’ascolto, aperto alla comunione (Martini 2002, 26-27).
Durante l’articolarsi delle dodici sessioni della Cattedra dei non credenti, l’obiettivo fu quello di minare alle fondamenta lo steccato fra credenti e non credenti, per esplorare un percorso spirituale che, facendo leva sul questionamento radicale e sul dubbio nei confronti dell’arroccamento su facili pregiudizi, consentisse l’attitudine sincera a lasciarsi interrogare dal segreto dell’esistenza (gioie e dolori, speranze e fallimenti), disponendosi all’ascolto delle domande che inquietano la propria coscienza in un clima di confronto e dialogo reciproco, al di fuori di ogni logica di proselitismo e di prevaricazione sull’altro
Una raccomandazione conclusiva non può essere omessa: la sollecitazione a un fruttuoso e serrato dialogo con il mondo dei laici da parte dei cattolici non può certo essere improntata a un vago buonismo o a un irenismo che faccia sconti sotto il profilo della coerenza e della integrità morale. Nei suoi numerosi pronunciamenti, il Cardinale è ritornato instancabilmente a indicare gli “abiti virtuosi” che devono contraddistinguere la coscienza individuale e le pratiche dell’agire degli uomini e delle donne che non esitano a vivere le sfide del presente in modo critico e responsabile. D’altra parte, i cristiani non possono trincerarsi in una cittadella fortificata ed elitaria, forti delle certezze della fede e della tradizione cristiana, ma devono misurarsi con le istanze proposte dagli uomini e dalle donne del proprio tempo, fino al punto di azzardare ‒ non senza audacia ‒ che «la Chiesa italiana potrebbe ricavare frutti di sempre maggiore povertà, essenzialità, purezza, linearità da alcuni episodi di laicismo che contraddistinguono certi settori della società italiana» (Martini 1986, 143).
Un rilancio della questione
Alla luce di questa disamina si potrebbe prevedere che i tre cespiti della lezione martiniana possano essere rilanciati secondo una rinnovata prospettiva: il congedo dalla teologia del laicato suggerisce di accordare credito alla cifra della testimonianza, fondata sulla forza trascinante della vita dei cristiani, sul valore della loro esperienza religiosa e sulla capacità attrattiva del messaggio evangelico; la querelle intorno al binomio Chiesa istituzionale-movimenti può trovare una chiave di soluzione nel ripensamento della sinodalità nella Chiesa, da intendersi come comunione strutturata del “noi” ecclesiale, in cui ciascuno svolge un suo ruolo e può avere una parola da dire nel quadro del vivere-insieme; infine, il dibattito fra cattolici e laici può trovare una feconda pista di riflessione in un confronto che sappia restituire nuovo significato e valore all’idea di laicità e così ritrovare il senso di una sana convivenza civile e democratica.
Note
Risorse
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