La trama
Ben e sua moglie Leslie sono due sognatori con una passione per le
utopie. Quando lei comincia a soffrire di un disturbo affettivo
bipolare, insieme decidono di cambiare vita per ritrovare la serenità
perduta. Per dieci anni, con i loro sei figli, si stabiliscono in una
selvaggia foresta del Nord America lontano da tutto ciò che la società
rappresenta. In seguito, a causa dell’aggravarsi della sua patologia,
Leslie viene ricoverata per tre mesi in un ospedale psichiatrico. Quando
Ben riceve l’improvvisa notizia del suo suicidio il loro idillio nei
boschi comincia a mostrare tutte le sue crepe, costringendo lui e i suoi
figli a uscire dall’isolamento e a immergersi di nuovo nel mondo per
rendere un ultimo omaggio a Leslie.
Ben Cash e i suoi sei figli dai nomi «unici in tutto il mondo» (Bodevan, Kielyr, Vespyr, Rellian, Zaja e Nai) e di età compresa tra i cinque e i diciassette anni abitano in una capanna in mezzo a una foresta. La loro è una vita corpo a corpo con la natura, fatta di corse sulle montagne, arti marziali, riti tribali e caccia con arco e frecce. Allo stesso tempo però è anche una vita intrisa di cultura. Avido lettore di Dostoevskij, Chomsky e Platone, Ben si ispira soprattutto al sistema educativo vagheggiato da quest’ultimo nella Repubblica: la matematica, la musica e la filosofia sono gli ingredienti essenziali della formazione che impartisce ai suoi ragazzi, insieme a una severa disciplina.
«Siamo definiti dalle nostre azioni, non dalle parole» è il suo motto, che ritorna con insistenza per tutta la durata del film. La principale preoccupazione di Ben è infatti quella di tradurre i suoi ideali di libertà, democrazia e rispetto per la natura in pratiche concrete, per viverli nella loro purezza e il più possibile senza mediazione. Tuttavia la sua personale critica al consumismo, allo sfruttamento irresponsabile dell’ambiente, alle religioni e alla corruzione della politica implica una ben precisa scelta educativa per nulla immune da contraddizioni, che coinvolge direttamente tutta la sua famiglia. Tale scelta comporta infatti come conseguenza per i suoi sei figli il fatto di essere letteralmente “sequestrati” dal resto della società e posti entro i confini di una realtà utopica, della cui artificiosità essi non sono nemmeno del tutto consapevoli.
L’affacciarsi dei giovani al mondo e il loro passaggio dall’adolescenza all’età adulta sono temi centrali in questo film. Come creare un ambiente educativo sano ed equilibrato per i giovani del terzo millennio? Come aiutarli a non lasciarsi fagocitare dalla superficialità e dalla frenesia di quest’epoca senza metterli sotto una campana di vetro? Il regista approccia queste difficili domande servendosi di un’antitesi tra due situazioni iperboliche. Lo si vede chiaramente nell’incontro tra i figli di Ben e i loro cugini, Justin e Jackson. Allo spirito libero e selvaggio dei primi si contrappone la disarmante superficialità degli altri due, viziati dai genitori e assuefatti ai videogiochi. Pur andando a scuola tutti i giorni e godendo di tutti benefici che la società può offrire, questi due adolescenti sembrano ancorati all’infanzia, immaturi («Ti piace la scuola?» «Mi è indifferente», risponde Justin alla domanda di Ben) almeno tanto quanto i loro sei cugini paiono alienati («A meno che non sia scritto su un cazzo di libro, io del mondo non so assolutamente niente!» sbotta a un certo punto Bodevan). Captain Fantastic presenta in modo onesto la serietà del dilemma educativo e lo affronta gradualmente, evitando forzature retoriche e slogan preconfezionati, per lasciare che una possibile risposta si manifesti a partire dalla maturazione dei legami fra i protagonisti.
La riflessione che questo film suscita procede infatti con il racconto dell’evoluzione dei rapporti personali tra i personaggi. La frattura relazionale rappresentata dall’improvviso suicidio di Leslie, moglie di Ben e madre dei ragazzi, da tempo affetta da un grave disturbo psichico, è il momento in cui tutte le contraddizioni vengono a galla. Nonostante i sei fratelli siano cresciuti leggendo i classici della letteratura, le relazioni fra loro e con il padre sono connotate dal carattere sanguigno del cameratismo più che dall’accoglienza del vero spirito fraterno. Questo li emargina da tutto ciò che non rientra direttamente nel loro “clan”. I nonni materni, ad esempio, che vogliono impedire a Ben di prendere parte al funerale della figlia (in quanto lo ritengono colpevole del suo crollo psichico), vengono definiti «un’altra tribù»; mentre ogni attività svolta come gruppo familiare nel mondo esterno è una «missione».
La lunga assenza della madre, inoltre, sembra averli destabilizzati più sul piano sociale che non su quello personale, forse anche in ragione dell’atteggiamento del padre, il quale sottolinea sempre che qualunque cosa accada nulla potrà mai intaccare la loro quotidianità. In realtà, in un sistema fondato sull’eccellenza fisica e psichica la fragilità di Leslie stride tanto da incrinare le radicali convinzioni di Ben, il quale pur di non ammettere il suo insuccesso lascia che l’unità familiare si infranga, mandandola a farsi curare da sola in uno dei migliori ospedali del Paese.
In questa famiglia non manca certo l’amore, come dimostra la scena in cui Ben annuncia ai figli la morte della madre. Ma è un amore grezzo, originario, che non è maturato perché sradicato da una dimensione sociale più articolata in grado di educarlo. Alla voce pacata e asettica di Ben («Vostra madre si è suicidata»), rassegnato da tempo all’incomprensibile ingiustizia della malattia, si oppongono le grida disperate dei ragazzi. È la prima volta che in un mondo fatto di azioni pure e istintive (ricordiamo il loro motto: «Siamo definiti dalle nostre azioni, non dalle parole») si percepiscono la mancanza e il bisogno di parole in grado di comunicare il dramma dell’esistenza.
Di fronte alla sofferenza, che abbatte ogni differenza tra puri e corrotti senza fare sconti a nessuno, le azioni di Ben mostrano tutta la loro inconsistenza. La rigorosa coerenza rispetto al suo ideale utopico può essere interpretata come una fuga dalle proprie responsabilità: produce l’espulsione del debole e impedisce ai suoi figli di fare il proprio ingresso nel mondo. Per accogliere e gestire la debolezza dell’altro non occorrono ricette filosofiche, ma azioni che rispondano con attenzione ai bisogni più inaspettati: sono queste che qualificano la bontà delle fondamenta di ogni comunità. Nel corso del film questa consapevolezza sembra venire lentamente in superficie e le azioni dei personaggi prendono una direzione nuova, che ri-orienta la rotta di tutta la narrazione.
Da avventurosa corsa contro il tempo verso il New Mexico per impedire che alla madre venga impartito un funerale cristiano (al posto di quello che lei stessa aveva indicato nel proprio testamento: «Io, Leslie Abigail Cash, in quanto buddhista, voglio essere cremata. Il mio funerale in questo modo sarà la celebrazione del cerchio della vita con musica e danze»), il racconto di Captain Fantastic si trasforma in un piccolo romanzo di formazione collettiva. Mentre Ben riconosce quanto incivile e pericoloso sia stato lasciare che dei ragazzini scorrazzassero armati in un supermercato o che scalassero il tetto di una casa senza protezioni, i suoi figli percepiscono per la prima volta la sua fragilità. Sbirciando al di là dell’invincibile Captain Fantastic che credevano egli fosse, riescono finalmente a vedere il suo amore per loro. Come avrebbe detto il professor Keating ne L’attimo fuggente, ora possono consapevolmente sceglierlo come loro capitano. La rabbia e la mancanza di parole che avevano sperimentato all’inizio lasciano spazio alla riconciliazione, che integra le più che ragionevoli obiezioni dei nonni materni, intenzionati a privarlo della custodia dei ragazzi, e allo stesso tempo le supera e le risolve. La bellezza dello stare insieme, non più platonicamente appesa fra le nuvole, si incarna nella libertà della relazione con l’altro.
Con la stessa disinvoltura con cui Ben indossa il suo completo rosso al funerale di Leslie, Viggo Mortensen sfoggia la sua innata capacità di scomparire fra le pieghe del proprio personaggio, consegnandogli tutta la propria fisicità. In perfetta sintonia con lui è anche il cast di giovanissimi attori che lo affiancano in ogni momento. Anche nel finale i sei ragazzi dimostrano di essere in grado di gestire con equilibrio e leggerezza una sceneggiatura che si fa sempre più surreale e grottesca, senza farla scadere nella caricatura. La pellicola, apertasi con una critica decisa a tutto ciò che è istituzione a cominciare dallo Stato e dalle Chiese, si chiude con un colorato rito funebre, espressione più arcaica e originaria della religione, celebrato sulle note di una ritmata e gioiosa versione di Sweet Child O’ Mine dei Guns N’ Roses.
L’amore materno di Leslie, silenziosamente presente nei ricordi di Ben per tutta la durata del film, si rivela alla fine la mediazione necessaria affinché questa famiglia possa riconnettersi con la realtà dalla quale era fuggita. Il padre può così trarre i figli dal grembo familiare per accompagnarli nella società. Relazioni di qualità mostrano che il senso dello stare al mondo non è al di fuori di esso e delle sue interconnessioni. La riflessione del regista può rappresentare dunque un appello per il rinnovamento di molte istituzioni: se vogliono contrastare il cieco radicalismo, è necessario che siano terreno fertile in cui le persone possano affondare le proprie radici e la propria storia, da cui alimentare speranze che si ramifichino verso un futuro ricco di frutti nuovi.