Burning

di Lee Chang-dong
Pine House Film, NHK, Now Films, Corea del Sud 2018
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2019

La trama del film

Jong-su è un aspirante scrittore che vive di espedienti, mentre il padre rigattiere entra ed esce di prigione. Quando incontra per caso Hae-mi, amica d’infanzia, non la riconosce: la ragazza si è infatti sottoposta a chirurgia plastica. Ma lei si ricorda bene di lui e lo persuade a prendersi cura del proprio gatto. Jong-su si innamora di lei, ma Hae-mi parte per l’Africa: al suo ritorno è accompagnata dal misterioso e facoltoso Ben. Quando Hae-mi scompare senza lasciare traccia, Jong-su non si dà pace e si convince della colpevolezza di Ben.

 

I ritorni artistici dopo un lungo silenzio generano di solito grandi aspettative e amplificano il rischio di essere delusi. In qualche caso, raro, permettono invece di valutare appieno il peso di un autore, regalandogli il tempo necessario per liberare il proprio estro in un’opera memorabile. Lee Chang-dong (già regista di Poetry e Secret Sunshine) non è nuovo alle pause: Burning, in concorso al Festival di Cannes del 2018, è stato realizzato dopo ben otto anni di lontananza dalla macchina da presa. Si tratta di un complesso film-enigma, in cui la soluzione è plurima, o forse inesistente, come in una contorta macchinazione, che accumula menzogne su menzogne per dare senso a ciò che apparentemente non sembra averne. La natura sfuggente e non lineare di Burning diviene così la perfetta fotografia della contemporaneità, un modo per raccontare un presente complicato e di difficile lettura. Se un tempo, nella società dei padri, era più semplice discernere il ricco dal povero o il vizioso dal virtuoso, oggi tutto è cambiato. I poveri hanno accesso a fonti culturali un tempo irraggiungibili, eppure restano separati dal resto della società da un invisibile baratro. Anzi, questa continua possibilità di scrutare quel che non si ha, quel che si accarezza ma che resta inafferrabile, genera una nuova forma di odio sociale, solipsistica e autodistruttiva.

Il protagonista del film Jong-su, abbandonato dalla figura paterna, sogna di scrivere il proprio romanzo. E di rappresentare un mondo che non ha nemmeno iniziato a conoscere nella sua doppiezza, nella sua ingiustizia e nelle sue piccole e grandi crudeltà. Un caso emblematico e doloroso di disallineamento tra realtà e percezione della stessa, che in forme differenti accomuna una parte consistente dei giovani sudcoreani: quelli che nel mondo, secondo dati recenti, risultano ricorrere maggiormente alla chirurgia plastica e indebitarsi di più per costruire un’immagine fittizia di benessere economico. Non a caso in Burning il Paese appare diviso – da qui anche la collocazione della vicenda vicino al confine con la Corea del Nord – tra una parte che può solo fantasticare sul benessere e un Sud che ha il dubbio privilegio di potersi illudere (o fingere) di possederlo.

Ma vi sono anche eccezioni, come quei pochi che concentrano misteriosamente ricchezze smisurate, del tutto in esubero. Il taciturno Ben, ritornato dall’Africa con Hae-mi, è uno di loro, e attraverso di lui il regista delinea un ritratto implacabile dell’invisibilità del Male. Ben è ricchissimo, annoiato e portato a osservare i piccoli uomini che gravitano attorno a sé come dei burattini impazziti, vulnerabili e manipolabili. Il passaggio da uomo comune a demiurgo annoiato è inevitabile, quasi automatico, in un ambiente ossessivamente concentrato sui beni materiali. Tutto accade in un contesto in cui le differenze sociali, la violenza e il pregiudizio sono più forti e più inafferrabili che mai, nascosti sotto strati di maschere e di sorrisi, in cui c’è chi brucia serre per diletto e chi protegge, chi gioca a governare i destini altrui e chi sogna, perché è tutto ciò che gli resta da fare. Il dualismo che si instaura tra Ben e Jong-su, costruito apparentemente intorno al vertice di un triangolo scaleno (chiuso dalla bellissima e inafferrabile Hae-mi), è lo scontro inevitabile di archetipi divergenti. Il confuso idealismo di Jong-su, gravato dal peso della miseria e del rimpianto, identifica in Ben ogni male; ma il regista Lee non indica mai con assoluta certezza quanto si tratti di ossessione e quanto di realtà.

Il thriller allucinatorio di Burning si divide così in due segmenti narrativi distinti: a fare da raccordo è una sequenza suggestiva e indimenticabile, in cui Hae-mi danza al tramonto sulle note di Miles Davis, liberandosi dai vincoli della società e, forse, della vita terrena. Un movimento sinuoso della macchina da presa segue la trance della ragazza per poi tornare sui due uomini, senza troppo avvicinarsi ai loro volti e alla loro verità. Una danza delle ombre, un gioco di suggestioni che non ha fine: il lavoro di messa in scena di Lee sconvolge lo spunto narrativo del racconto originario di Haruki Murakami (1Q84, Tokyo Blues) e introduce simboli carichi di nuovi significati.

In continuità con una carriera esente da passi falsi, Lee Chang-dong osserva il presente, con pazienza esemplare e minuziosa curiosità, per raccontare attraverso storie “di genere” (in questo caso il thriller) l’inquietudine di una nazione mai pacificata, capace di cacciare a pistolettate un dittatore e di eleggerne la figlia decenni dopo, in una spirale continua di orgoglio anticomunista e redenzione democratica. La storia personale del regista si lega alle vicissitudini politiche del Paese, dal momento che Lee è stato anche il Ministro della cultura del primo Governo di centrosinistra della giovanissima democrazia sudcoreana. Un ruolo che ha ricoperto dal 2003 al 2004, ovvero durante gli anni del cosiddetto Hallyu, l’onda coreana, una fioritura artistica capace di influenzare culturalmente anche Paesi lontanissimi.

Uno dei primi ad aprire gli occhi sul cambiamento del proprio popolo è stato proprio Lee con il film Peppermint Candy, viaggio simbolico di un ex soldato che soffre di amnesia, ma recupera brandelli di memoria da un vissuto insostenibile: il massacro di Gwang-ju, repressione sanguinosa delle rivolte studentesche e pagina tra le più nere della storia sudcoreana. I lavori successivi – Oasis, Secret Sunshine e Poetry – traslano i riferimenti politici espliciti di Peppermint Candy in vicende drammatiche di violenza insensata, elaborazione impossibile di un lutto e disgregazione del nucleo familiare. Ritratti intensi e spesso strazianti, elegie di vite qualunque, attraversate da una tensione religiosa crescente (il cristianesimo in Secret Sunshine), da un romanticismo inatteso (Oasis) o da una consapevolezza panteistica sulla natura delle cose (Poetry). Fino agli otto anni di silenzio che conducono a Burning, opera-summa dell’autore, colpevolmente ignorata dalla giuria dell’ultimo Festival di Cannes. Un film che trasporta il pessimismo screziato di sentimenti di Oasis, storia d’amore tra un ragazzo ritardato e una ragazza paraplegica, nella totale mancanza di appagamento di Burning. Al sogno di normalità si sostituisce il deserto della speranza, con l’Africa e la “grande Fame” sullo sfondo, come un monito invisibile sulle conseguenze della concentrazione di molto nelle mani di pochi.

Il mosaico di Burning è fatto di minuscoli tasselli imprescindibili, assemblati in un quadro d’insieme disturbante e variegato. Il crescendo di paranoia che caratterizza l’ultima parte del film, che non riveliamo per non guastarne la visione, invita a rielaborare tutto quanto si è osservato sino a questo momento, a cercare indizi in quelle che sembravano mere suggestioni. A comprendere quanti e quali significati possa nascondere il singolare passatempo di Ben, che ama incendiare serre abbandonate. Quale migliore metafora per raccontare la vera natura del personaggio e del suo denaro, che corrompono (ovvero bruciano) giovani vite disperate (le piante di una serra in disuso) per gioco, più probabilmente per noia? Non serve che Jong-su sia certo delle azioni di Ben, né tanto meno del suo movente: è sufficiente constatare fin dove si spinga l’onnipotenza del più abbiente in una società che ha cancellato de facto ogni forma di uguaglianza. Ed è curioso come il disperato giustizialismo di chi si sostituisce alla legge divina – Ben prima e Jong-su in seguito – si riallacci a uno dei capitoli più controversi e preveggenti della commedia all’italiana: In nome del popolo italiano di Dino Risi. Come il magistrato interpretato da Ugo Tognazzi, anche Jong-su ha raccolto elementi sufficienti per esprimere il proprio verdetto di colpevolezza.

Come ogni nuova visione, il film di Lee Chang-dong riserva altrettante rivelazioni sulla propria natura enigmatica: perché Hae-mi si reca in Africa? Esiste davvero un gattino da curare per Jong-su, o è solo l’ennesimo inganno? È inutile sforzarsi di capire alla lettera quanto avviene, meglio accettare la sfida del simbolismo ermetico proposto dal regista. Comprendere Burning equivale a sbucciare un’arancia invisibile, come fa Hae-mi in una scena: si gusta un frutto inesistente e inafferrabile, di cui è però impossibile dimenticare il sapore.

 
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