Bullshit jobs*
David Graeber
* Le professioni senza senso che rendono ricco e infelice chi le svolge e costituiscono il fondamento del nuovo capitalismo globale. In italiano potrebbero definirsi lavori del cavolo.
Garzanti, Milano 2018, pp. 400, € 19
Che cos’è un bullshit job? Secondo la teoria dell’A., l’espressione designa un’attività lavorativa che potrebbe essere soppressa, senza che nessuno al mondo ne senta la mancanza. Oppure, più radicalmente, la società potrebbe anche trarre giovamento dalla scomparsa di tale lavoro inutile.
Si tratta di una ricerca che nasce da un articolo provocatorio, scritto nel 2013, nel quale David Graeber – un antropologo che insegna alla London School of Economics – poneva al lettore la domanda: «Se tu smettessi di fare il tuo lavoro, chi ne sarebbe danneggiato?». L’articolo ebbe risonanza mondiale, con una dozzina di traduzioni, e portò alla preoccupante scoperta che circa il 40% dei lettori riteneva di lavorare senza dare nessun contributo significativo alla società.
Sulla base della statistica, Graeber traccia un’articolata – forse troppo – fenomenologia del lavoro inutile, attraversando categorie e figure professionali ad ampio raggio e raccogliendo testimonianze da ogni parte del mondo, fino al caso-limite del funzionario spagnolo che si assentò dal lavoro per sei anni, prima che i superiori se ne accorgessero. Questa percezione di inutilità è allora un tratto che caratterizza il nostro mercato del lavoro: occorre pertanto riflettere sulla sua fondatezza. Un dato che sorprende ancora di più, in un’epoca che esalta l’efficienza: nella produzione, nei servizi, persino nella vita privata. Un punto centrale della questione è: chi decide che un lavoro è inutile? Su questo aspetto, Graeber adotta un approccio empirico e si ferma, prudentemente, alla percezione individuale del lavoratore. Tuttavia questa, moltiplicata per milioni di persone, realizza una società che comprende se stessa e il proprio rapporto con il lavoro sulla base di un senso di vuoto, se non di colpa.
A partire da questo assunto, l’A. sviluppa l’intuizione centrale del libro: come società, vediamo nel lavoro un fine in se stesso, indipendentemente da una valutazione, in termini di valore, di ciò che il lavoro produce. Affrontare la questione nella prospettiva del significato sociale del lavoro è, senza dubbio, un approccio che muove nella giusta direzione. La vaghezza di una definizione come “contributo significativo alla società” dice che non possiamo fare affidamento sulla sola percezione individuale. Stuoli di medici e insegnanti confessano di faticare a trovare un senso al proprio compito, senza che questo avvalori l’ipotesi di un mondo senza ospedali né scuole. Il significato del lavoro rimanda al riconoscimento pubblico della catena del valore ed è un compito sociale, non individuale.
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