Boyhood, titolo dell’ultimo film scritto e diretto da Richard Linklater, si dovrebbe tradurre con fanciullezza o al limite giovinezza. Termini italiani che non restituiscono appieno l’accezione inglese. La definizione data dall’Oxford Dictionary è «the state or time of being a boy»: la condizione di essere un ragazzo. Condizione sia fisica che esistenziale.
La sinossi di Boyhood, in accordo con il titolo, è molto semplice, due righe al massimo: passano dodici anni nella vita della famiglia Evans, la madre Olivia si sposa due volte e divorzia, il padre, Mason sr., dopo alcuni momenti di sbandamento, costruisce una nuova famiglia, i due figli, Samantha e Mason jr., crescono e vanno al college. Più che un soggetto cinematografico, sembra un piccolo racconto di vita. Niente di spettacolare, nessun intreccio narrativo complesso, nessun colpo di scena. Ma se, in apparenza, tutto è semplice, lo stupore degli spettatori e della critica alla première – avvenuta alla Berlinale del 2014, dove il film ha vinto l’Orso d’argento – è stato molto. La peculiarità del film è di ritrarre la vita quotidiana, con le sue criticità e con le sue piccolezze. Per farlo il regista ha scelto una strada nuova. Mai nella storia del cinema si era portato davanti allo schermo l’invecchiamento dei personaggi senza far ricorso ad alcun trucco, ma solo filmando per anni – e sono dodici quelli di lavorazione di Boyhood – gli stessi attori. Il tempo che scorre attraverso le vite di Mason jr., di sua madre e della sorella Samantha, come del padre Mason sr., è testimoniato allo spettatore dal cambiamento dei corpi degli interpreti del film: quello che all’inizio della pellicola è un bambino di sei anni diventa un giovane uomo.
La narrazione procede fluida, senza alcun salto di montaggio, impedendo di comprendere quali siano i passaggi chiave. Come lontani parenti del nucleo familiare, anche gli spettatori assistono allo spettacolo della vita a tappe: le vacanze estive, una crisi coniugale, un trasloco. La struttura stessa del film sembra accompagnare quella della memoria umana. Durante l’infanzia di Mason, ad esempio, tutto appare sfuocato e sovrapposto, le scene sono principalmente episodi quotidiani di breve durata, è faticoso – se non attraverso dei riferimenti precisi, come l’altezza dei personaggi più giovani o gli oggetti nella casa – risalire a un tempo preciso o ubicare un accadimento rispetto a quello precedente (quanto tempo sarà passato?). Il film, come la memoria di una persona, si arricchisce col passare degli anni. Se nella prima parte il racconto appare corale e l’ocularizzazione sposa i due genitori, l’occhio della macchina da presa si sposta progressivamente (e la durata della pellicola, 150 minuti, lo permette) su Mason jr. e Samantha. In Boyhood, diversamente da quanto fatto prima, si rende cinematografica la temporalità e si cerca di catturare il “movimento del tempo”. In effetti, il lavoro di scrittura, apparentemente molto semplice, si scopre a una seconda visione raffinato, aderendo in maniera mimetica alle sfumature linguistiche della crescita: la semplicità dell’infanzia, fatta di giochi immaginari e paure profonde, la volgarità della preadolescenza, l’introversione e la ricerca di assoluti dell’adolescenza matura. In un contesto quotidiano il film riesce a diventare improvvisamente profondo, affiancando ai comuni diverbi casalinghi riflessioni sul tempo, sulla vita, sulla società. La crescita di Mason jr. e Samantha è restituita anche attraverso il dialogo: i due ragazzi, molto più silenziosi nella parte centrale del film, riprendono l’uso della parola quando scoprono la propria identità di persone e la propria individualità.
Un altro aspetto di interesse è il rapporto che il film instaura con i diversi spettatori: un giovane tenderà a proiettarsi all’inizio del film nel personaggio di Ethan Hawke (padre trentenne immaturo) per poi immedesimarsi nel giovane Mason jr., ormai diciottenne. Così la stessa vicenda – la storia della famiglia Evans – è osservata da due prospettive profondamente diverse, come testimoniato dal dialogo tra padre e figlio nel giorno della festa per il diploma del ragazzo. Si useranno così, in tutta la prima parte del film, i riferimenti degli adulti per guardare il mondo dei bambini: la classe scolastica, la cameretta, il taglio di capelli; per poi passare a guardare i genitori – prima protagonisti – con l’occhio dei loro figli.
Boyhood può essere letto come un ritratto – quasi documentario – del processo di crescita di un ragazzo, che ne mostra le fasi principali – l’attaccamento ai genitori, la scoperta dell’affettività e della sessualità, la definizione di una propria identità personale – con finezza e capacità di sintesi. In questo equilibrio così delicato si gioca quindi tutta la capacità di regia di Linklater, che non intende privilegiare un momento rispetto all’altro, ma, a volo d’angelo, scorre attraverso la vita di Mason jr., facendo emergere di volta in volta momenti importanti e aspetti secondari. Il film si muove così nella direzione diametralmente opposta rispetto alla storia del cinema americano (normalmente codificato in un genere definito “coming of age”). Se opere tra loro diversissime, per geografie e stili, come Stand by me, Ragazze interrotte o Y tu mama también cercavano di individuare un singolo momento – un trauma, un incontro amoroso, un viaggio – per raccontare il passaggio dall’infanzia all’età adulta, Linklater sembra dire allo spettatore che la vita – crescita o invecchiamento – non è fatta di passaggi obbligati, ma si realizza in un continuo spesso indistinto. Non che nel film manchino momenti di forte carica emotiva o narrativamente rilevanti – in particolare risulta molto forte il racconto del secondo matrimonio della madre Olivia con un professore violento e dedito all’alcolismo –; semplicemente Linklater è molto attento a cercare di rendere una realtà non enfatica o non pianificata. Avendo ben presente la lezione del cinema francese degli anni ’70, il film, in tutta la sua durata, sembra aprirsi a cogliere l’inaspettato dell’esistenza umana (non va infatti sottovalutato anche il rischio reale del lavorare per dodici anni con lo stesso cast). Per utilizzare una metafora chimica, laddove il cinema americano ha sempre lavorato distillando il racconto (cioè isolando solo i momenti significativi ed emotivamente coinvolgenti) Boyhood racconta la crescita di Mason jr. per diluizione, allargando i tempi e le scene, mostrando il mondo che circonda i protagonisti del racconto, senza preoccuparsi troppo della linearità.
In ambito critico, in molti si sono occupati delle aspirazioni letterarie di Richard Linklater che con Boyhood sembra guardare con grande attenzione alla traccia di opere come Dopo tutto questo di Alice McDermott (che racconta un decennio di una famiglia americana), Le correzioni di Johnatan Franzen, Pastorale americana di Philip Roth, Underworld di Don DeLillo o Il figlio di Philipp Meyer. Come in un romanzo, Boyhood abbandona ogni legame stretto tra le scene e punta a raccontare un’epoca e una società. Il ritratto degli Stati Uniti che emerge dal film sembra respirare un’atipica epica americana, che celebra, in maniera molto sottile, un mondo di vacanze familiari e bowling, falò in montagna e macchine d’epoca, grandi paesaggi e città gremite di grattacieli. Un cinema che parla all’uomo di ogni nazione, ma che racconta soprattutto l’America degli ultimi dieci anni e le sue trasformazioni radicali: l’avvento dei social network e la campagna elettorale di Obama, la radicale liberalizzazione del commercio d’armi e la nascita dei movimenti evangelici. Come per il lato più psicologico del film, anche nel suo ritratto sociologico Linklater evita facili didascalismi, puntando su uno stile suggerito, che cerca di offrire una serie di spunti di riflessione tra loro molto diversi. Ogni spettatore è libero di muoversi all’interno di un magma tematico che cerca di restituire il disordine della realtà nel suo divenire storico. A dominare è certamente il racconto del cambiamento dei costumi relazionali, della modifica radicale dell’equilibrio familiare, spostato sempre più verso una disfunzionalità marcata, animata dalla difficoltà congenita nel creare una relazione duratura e dei punti di riferimento per la crescita dei propri figli.
I pregi e i difetti di Boyhood coincidono: se da un lato il film offre allo spettatore la libertà di muoversi nel testo filmico, permettendo di eleggere personalmente temi e spunti di riflessione, dall’altro perde di vista, volutamente, l’essenza del racconto cinematografico, non concedendo nessuna catarsi finale né dicendo una parola definitiva sui propri personaggi. L’ago della bilancia sembra spostarsi evidentemente sul linguaggio documentario; al racconto si sostituisce così il ritratto (sottolineato anche dal succedersi dei modelli di cellulari, computer, auto o dei brani musicali popolari) lasciando lo spettatore decidere quale sia la differenza tra il film appena visto in sala e la vita che scorre al di fuori delle porte della sala cinematografica.
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