Pochi film hanno dato vita a tante analisi e discussioni come Blade Runner, la pellicola di fantascienza diretta da Ridley Scott ormai 35 anni fa. Tratta dal romanzo del 1968 di Philip K. Dick Il cacciatore di androidi, all’uscita nelle sale non conobbe un successo immediato. Solo in seguito divenne un vero e proprio film di culto, riconosciuto come una svolta nel filone “adulto” della fantascienza cinematografica. Intendiamo con questo termine quella serie di pellicole che ha saputo sfruttare le grandi metafore offerte dall’immaginario futuristico per sondare i terreni più complessi della filosofia: si pensi a classici del genere come 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick o a Solaris di Andrej Tarkovskij. In particolare, con il suo film Ridley Scott poneva per la prima volta al cinema le questioni della pericolosa vicinanza tra robot (o replicante) e uomo, di un’evoluzione tecnica che avrebbe potuto puntare a realizzare un essere cibernetico senziente. La celeberrima frase del personaggio Roy Baty, «Ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare», segnò in questo senso un’epoca.
Denis Villeneuve – regista canadese che negli ultimi anni ha saputo portare una ventata d’aria fresca al genere sci-fi e thriller grazie a pellicole enigmatiche e ricche di simbolismi (tra cui La donna che canta e Arrival) – è stato chiamato da Ridley Scott, stavolta in veste di produttore esecutivo, a dirigere il seguito di questo film oramai mitico, cristallizzato nell’immaginario collettivo. La scelta ha inizialmente lasciato perplessi i fan del primo film, ma all’uscita in sala Blade Runner 2049 ha raccolto il plauso della critica. Ad essere apprezzata è stata soprattutto la doppia natura del film di Villeneuve, che è sia un sequel nel vero senso della parola – ovvero una narrazione che fa progredire la storia precedente – sia un’operazione di “recupero” del passato, volta a fare memoria del primo film e di tutto quello che ha rappresentato.
Da un punto di vista stilistico, Villeneuve lavora di sottrazione, anche se le tecniche di oggi permetterebbero un largo utilizzo di effetti spettacolari. Il digitale è sfruttato nelle inquadrature a volo d’uccello sulla città e sul deserto, ad esempio, ma il suo uso è volutamente celato, a favore di un minimalismo della messa in scena che fa il paio con la recitazione essenziale dell’attore protagonista, Ryan Gosling, che interpreta il ruolo del poliziotto K. Tutto quello che appariva nelle famose ambientazioni metropolitane del film di Scott qui ritorna, ma con un altro aspetto: consunto, sporco, ricoperto di neve o di ruggine. Come a dire che il progresso dell’umanità, che ha portato a confondere vita e dispositivo tecnologico – si veda la fidanzata virtuale del protagonista – va di pari passo con una generale apocalisse terrestre, che ha devastato il nostro mondo. Anche i dialoghi sono spogli e crepuscolari quanto i paesaggi. E le scene d’azione, così decisive nell’originale, qui diventano sporadici episodi che non interrompono la generale sensazione di staticità. Questo contrasto tra luce e buio, tra evoluzione e involuzione, tra azione e stasi fa emergere a poco a poco una domanda, un’urgenza morale, nello spettatore così come nel protagonista: che cos’è umano e che cosa non lo è?
In effetti, sin dalla prima inquadratura sull’occhio del protagonista, il film ci riconduce al centro dell’incubo dickiano: quello di una società divisa tra uomini e replicanti – robot “più umani dell’umano”, per citare il film del 1982 –, simbolo di una realtà che ha perduto il senso del limite ed è destinata ad autodistruggersi. Il poliziotto K, il replicante dell’ultima generazione che è il personaggio principale di Blade Runner 2049, ha superato l’ennesimo test di efficienza, rassicurando sulla sua affidabilità chi lo sfrutta per dare la caccia ai cattivi tra i suoi simili. La dialettica tra questo personaggio e gli altri con cui ha a che fare – come il suo superiore, interpretato da un’algida Robin Wright – apre a momenti di riflessione sui desideri di libertà e di umanità di macchine che si vorrebbero ridotte a schiavi “senz’anima”. Conteso tra molti avversari, K intravede una via d’uscita quando incontra Rick Deckard (Harrison Ford), che faceva lo stesso lavoro di K e ora vive in clandestinità. L’uomo, ormai anziano, custodisce un segreto che potrebbe avere ricadute decisive per l’intera umanità.
Nel frattempo, Niander Wallace, il successore del dottor Tyrell – a capo dell’azienda che nel primo episodio produceva i replicanti – ha prodotto e diffuso in tutto il mondo nuovi “lavori in pelle”: robot umanizzati in apparenza perfetti, senza limiti di longevità e obbedienti. Ma alcuni esemplari superstiti della produzione Nexus 8 (quella realizzata da Tyrell e ormai fuori legge) sono ancora in circolazione, nascosti in zone sperdute del mondo. Devono dunque essere “ritirati”, un eufemismo per dire soppressi. Nella prima parte del film, K esegue, secondo la prassi, la sua missione ancora una volta, uccidendo un suo simile. Ma il suo freddo distacco viene turbato dalla vista di un albero, tenuto in piedi da tiranti in acciaio, che si erge in uno scenario post-apocalittico, dove la vita sembra pian piano scomparire. Qual è il senso di questo simbolo, quasi biblico, nell’economia della narrazione?
Per capirlo, così come per cogliere il senso di questo sequel, è bene richiamare alla memoria il finale del film del 1982: un uomo e una donna – lei replicante – lasciavano una Los Angeles immersa nella pioggia per fuggire verso un avvenire di speranza, come faceva presagire la luce che appariva finalmente sul loro orizzonte. Terminava in questo modo – con un atto di disobbedienza – la caccia ai fuggitivi che si erano ribellati alla fine scritta nei loro circuiti. Nel corso degli anni è emerso che Scott in realtà avesse pensato a un finale più pessimista, vicino a quello dello stesso Philip K. Dick, suggerendo che anche il cacciatore umano interpretato da Harrison Ford, in realtà, potesse essere un robot.
La Los Angeles entro cui si muove K, trent’anni dopo, è diversa non solo da quella contemporanea, ma anche da quella dello scenario del primo film ambientato nel 2019: le luminarie avveniristiche inventate da Scott non ci sono più, o meglio, si sono spente sotto a un generale stato di torpore. Proprio la luce e il buio fanno da filo rosso tra le due storie, sia da un punto di vista estetico, in quanto guidano le scelte rappresentative di Scott e Villeneuve, sia dal punto di vista del percorso interiore dei personaggi. L’occhio di K, dopo il test iniziale, si riapre alla luce, ma quello che scopre è un mondo cambiato in peggio: se il tema portante del film ambientato nel 2019 era la minaccia di una ibridazione di umano e robotico, nel 2049 siamo arrivati all’idea di un agente robot che deve ritirare i replicanti più vecchi perché “troppo umani”. L’inganno è sempre a portata di mano, tanto che il film di Villeneuve sembra voler ragionare proprio sul tema del simulacro, della simulazione, di un mondo di apparenze, iniziato con i robot e consolidato dalla fuggevolezza del virtuale. Non è un caso che nel film ricorrano con frequenza immagini contraffatte, come gli ologrammi di Marilyn Monroe, Frank Sinatra ed Elvis Presley, che rappresentano una memoria del passato essa stessa ridotta a mera figurina bidimensionale.
L’accettazione da parte K di questa realtà fittizia e di superficie, tuttavia, verrà messa in crisi da un imprevisto, da un evento che non rientra nella pianificazione tecno-scientifica che regola il mondo del futuro. E questo accadimento che eccede il normale, questo “miracolo”, risponde al nome di “nascita”. Qualcuno è “nato” mentre pensava di essere stato “creato”. Alla base dell’albero a cui facevamo riferimento più sopra, gli occhi artificiali del giovane cacciatore hanno intravisto qualcosa: i resti di un’esistenza precedente. E una data, in particolare, capace di far affiorare sensazioni e ricordi. È qui che K inizia a fare i conti con se stesso e con un ipotetico passato fatto di abbandono e solitudine, di sofferenza. Ma si tratta di un reale trauma infantile o di un innesto operato dai suoi “creatori”? Il percorso di K, che qui non sveleremo per non rovinare la sorpresa della visione del film a chi legge, è da un lato il riconoscimento di un miracolo, di una maternità che riguarda un personaggio che, non a caso, porta il nome di Rachele, e dall’altro la ricerca di un padre, una volta assaporata la propria essenza di figlio. Nella voluta ambiguità tra umano e robotico, mantenuta fino all’ultimo fotogramma, Blade Runner 2049 ci interroga dunque sul senso di alcune parole: nascita e creazione; genitori e figli.