Birdman
La trama: Riggan Thompson (Michael Keaton) è un attore famoso per aver interpretato un supereroe, Birdman, passato alla storia del cinema. Dopo un ventennio di inattività cinematografica decide di adattare per il teatro la celebre opera di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Lo spettacolo, nella mente di Thompson, è l’occasione per riabilitarsi agli occhi della critica, che dopo la sua interpretazione di Birdman lo ha snobbato e ostracizzato dalla scena culturale newyorkese. Nei giorni che precedono la serata della prima l’uomo deve fare i conti con il suo ego, con i tentativi di recuperare la sua famiglia, la carriera e il successo. Scena dopo scena, le sue nevrosi prendono la forma del supereroe Birdman, con cui Thompson si trova a discutere e, talvolta, a litigare ferocemente. I confini tra la realtà e l’immaginazione di Riggan Thomson iniziano lentamente a sfumare... che sia possibile che l’attore sia diventato improvvisamente un supereroe? Che il cinema abbia il potere di cambiare la realtà?
Affrontare un film come Birdman (vincitore di tre premi Oscar e apprezzato dal pubblico al botteghino) non è semplice, in particolare per il rifiuto di una narrazione lineare, per la quasi totale assenza di montaggio (che normalmente aiuta lo spettatore a prendere le distanze rispetto allo spettacolo) e per la struttura a scatole cinesi in cui ogni livello della narrazione (lo spettacolo, le allucinazioni e il film stesso) rimanda a un altro, in un continuo gioco di specchi. Al di là delle prodezze tecniche di regia, che consacrano il regista messicano Alejandro González Iñárritu tra i virtuosi della settima arte, l’interesse principale di Birdman è offrire una riflessione sul senso e sulle dinamiche della produzione artistica nella società contemporanea. Il film, sotto un’apparente storia di un attore che, in preda ad allucinazioni psicotiche, vede il personaggio che ha interpretato e dialoga con lui, vuole raccontare ciò che succede dopo che una pellicola, uno spettacolo teatrale o un’installazione artistica vengono presentati al pubblico. Parlare del film è quindi, in un certo qual modo, parlare delle reazioni al film (Birdman) e ai film come oggetti di consumo.
Il primo spunto di riflessione, sviluppato più chiaramente nelle scene iniziali della pellicola, riguarda lo statuto delle star nella contemporaneità. Riggan Thompson è stato un attore importante nel panorama hollywoodiano degli anni ’90, il cui ritorno sulla scena lo riporta improvvisamente all’attenzione dei media, che, tra interviste di giornalisti, autografi dei fan e sferzanti stroncature dei critici, iniziano a erodere la sua vita privata. Con il crescere dell’interesse verso la sua rappresentazione teatrale, il rapporto di Riggan con la figlia Sam peggiora inesorabilmente, le visioni di Birdman iniziano a diventare più frequenti e i contorni tra vita pubblica e vita privata iniziano a farsi sempre più labili.
Esteticamente Iñárritu decide di rinunciare il più possibile al montaggio, optando per una costruzione filmica basata sul piano sequenza (una sequenza interamente composta da una sola inquadratura, senza alcuno stacco), che permette di tuffare lo spettatore nel mondo claustrofobico da cui Thompson non sembra poter uscire. Anche il mondo esterno sembra un unico grande palcoscenico. In tale scelta si riflettono alcune idee del sociologo francese Guy Debord – dai cui studi Iñárritu è stato fortemente influenzato – sulla società dello spettacolo: «Lo spettacolo si presenta nello stesso tempo come la società stessa, come parte della società, e come strumento di unificazione. In quanto parte della società, esso è espressamente il settore più tipico che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, è il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza; e l’unificazione che esso realizza non è altro che un linguaggio ufficiale della separazione generalizzata» (DEBORD G., La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, ed. or. 1967). Anche quando Riggan Thompson si aggira per New York rimane sempre e comunque in scena. Con il procedere del film, diventa sempre più difficile comprendere quando i personaggi recitano e quando invece sono sinceri. Per Riggan, dal momento in cui decide di tornare a essere una star, non vi è alcun mondo al di fuori del palcoscenico.
Il secondo spunto di riflessione del film riguarda invece il rapporto tra la società artistica e i nuovi media. Tra vent’anni le tesi in storia del cinema, nel parlare della recezione di un film, aggiungeranno i commenti circolati su Facebook e Twitter? L’accumulo di caratteri e hashtag generati da critici, registi e studiosi sarà parte integrante del dibattito riguardante un’opera? Il fatto che un importante cineasta twitti una battuta su un film ha qualche valore storico? Iñárritu sembra chiedersi questo con Birdman, cercando di capire in che modo la produzione artistica è cambiata attraverso il filtro della società televisiva globalizzata degli anni ’90 (i kolossal hollywoodiani rappresentati dal Birdman del titolo) e dei più recenti social media. Il confronto portato in scena è quindi tra tre differenti tessuti culturali a cui, volente o nolente, appartiene Riggan: la cultura “alta”, rappresentata da Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Raymond Carver, il mass-cult rappresentato dal film di supereroi Birdman e il nuovo mondo dei video di youTube, raccontato nell’inserto virale di Riggan che cammina attraverso Times Square in mutande; ed è un confronto che schiaccia il personaggio di Riggan Thompson in maniera lacerante. L’attore, che proviene dalla Hollywood degli anni ’90 (emblematico che sia interpretato da Michael Keaton, prima grande star di un cine-comic, il Batman di Tim Burton) sogna, per tutto il film, un ritorno a quella cultura verticale rappresentata dal teatro di Broadway, che a lui sembra una meta importante per la propria carriera. Il suo desiderio di riconquistare uno status artistico-letterario acuisce i conflitti con la figlia Sam, convinta assertrice dell’importanza della realtà virtuale, che a un certo punto gli dirà: «Tu odi i blogger, ti fa schifo Twitter, non sei neanche su Facebook, è pazzesco! Sei tu quello che non esiste!!».
Cosa dovrà fare Riggan per tornare a creare “arte” nel panorama contemporaneo? Diventare il personaggio di un video virale, oppure tornare a interpretare Birdman o, ancora, gratificare l’importante critico teatrale del New York Times? In tali dubbi si riflette il recente dibattito sul ruolo della cultura nella contemporaneità portato avanti dal sociologo francese Gilles Lipovetsky, che, in un intenso dibattito con il premio Nobel Vargas Llosa, si è trovato a dire: «I poeti pensavano che l’alta cultura potesse cambiare l’uomo e la vita. Oggi nessuno pensa più una cosa del genere. Anzi, è la società dello spettacolo che di fatto ha vinto. Quello che ci aspettiamo dalla cultura è l’intrattenimento, cioè una forma più elevata di divertimento. Sono il capitalismo e la tecnologia a cambiare la vita, oggi. E la cultura finisce per essere un loro contorno» (cfr <www.eurozine.com/articles/2014-01-08-vargasllosa-it.html>). Riggan pensa di vivere in un mondo in cui la cultura letteraria sia ancora capace di dire qualcosa della società e sia in grado di modificarla, Iñárritu invece, attraverso le sofferenze e i deliri psicotici di Thompson, porta lo spettatore a riflettere su come sia cambiato il rapporto tra spettatore e opera e su come, forse, l’arte non sia altro che un prodotto marginale della società.
L’ultimo spunto che ci offre Birdman è il rapporto tra attore e spettatore, quando gli attori sono assunti allo status di “opere d’arte viventi”. Gli attori/personaggi del film sono svuotati, senza passato né presente e privi di peculiari caratterizzazioni. La loro esistenza all’interno della narrazione si deve unicamente al riscontro del pubblico. L’attore è quindi, più che mai, oggetto, veicolo delle emozioni della massa informe, ben rappresentata dai trattini sulla carta igienica in una scena del film.
In coerenza con la direzione iniziata 15 anni prima con Amores Perros (dove i soggetti erano i cani e gli oggetti gli umani), il regista messicano ripropone, in forma di narrazione, una parabola sullo svuotamento delle identità personali all’interno delle società globalizzate. Ma se nelle sue opere precedenti erano centrali i rapporti produttivi di stampo industriale, in Birdman Iñárritu guarda alla civiltà dello spettacolo, all’ipermodernità dei social media, alla spersonalizzazione (e deculturazione) operata dall’ossessivo trasformarsi degli spettatori in seguaci/follower e delle star in trend o pagine da seguire. Ciò che viene rappresentato è quindi un rapporto estremo della società contemporanea, dove gli attori si trasformano in icone e il pubblico diventa un semplice flusso di visualizzazione. L’emozione, per tutto Birdman, è ridotta a uno stato di “di più” (più esplosioni, più sangue, più realtà) che non fa altro che assecondare le pulsioni emotive della massa. Lo stesso testo di Carver, alla fine di tutta la proiezione, sembra non poter sopravvivere se non come ultimo – e anonimo – clickbait, traccia di qualcosa che è esistito (l’amore di cui parlare, ma anche la scrittura come forma d’arte), che senza un “di più” che ne promuova il click non ha più alcuno spazio d’esistenza. Sembrano riecheggiare le parole di Lipovetzky: «Una volta c’era il benessere anni ’50, ’60, ’70. Adesso c’è un mondo che sembra un frappé, un grande pasticcio, un eccesso di oggetti, logo, brand. La felicità è il fondamento della società dei consumi: è questo l’obiettivo, ma chi è felice oggi a trent’anni? I ragazzi cercano tutti esperienze, sensazioni, emozioni e il consumo è lì, pronto, a portata di mano, è il mezzo per portare piccole novità, frammenti di eccitazione, scosse infinitesimali che compensano i vuoti. È la conseguenza di un mondo che ha democratizzato l’ideale di felicità, una società individualista, dove io, lei, tutti ci sentiamo soli». Una solitudine che accompagna tanto Riggan Thompson, quanto tutti i personaggi del film, fino alla sua drammatica conclusione.
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