Bene comune

Fascicolo: maggio 2013
Il bene comune è il principio organizzatore dell’intero discorso sociale della Chiesa in materia politica, sociale ed economica. Radicato in una lunga tradizione di pensiero, esso rappresenta una reinterpretazione della tradizione filosofica greca da parte della filosofia scolastica. Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (1265-1274), articola l’apporto del pensiero di Aristotele con le esigenze del pensiero cristiano. Per il filosofo greco, l’uomo è un essere politico che vive grazie alla città e all’interno di essa. La politica è l’obiettivo ultimo, che organizza le relazioni tra gli uomini; il suo principio di azione è il bene maggiore della città, il bene perfetto che basta a se stesso, il bene umano. Per Tommaso la comunità politica ha per fine non di asservire l’uomo, ma di farlo nascere a se stesso aiutandolo a raggiungere un fine più alto: il bene vivere o la felicità di vivere insieme. L’ordinamento giuridico incaricato di dire il diritto è animato dalla virtù della giustizia ed esercita una costrizione ragionevole sulle persone per orientarle verso il loro fine comune. Così la comunità politica permette alla società di realizzarsi come comunità di persone orientate verso il bene, in modo che l’uomo, sorretto dal progetto creatore e salvatore di Dio, pervenga al compimento della propria umanità.

Genesi del bene comune

Questa eredità teologica, antropologica ed etica, è assunta nell’insegnamento sociale della Chiesa mediante la nozione di bene comune, con contributi apportati da ciascuna delle encicliche sociali in funzione dei propri contesti.

Il pronunciamento inaugurale di Leone XIII nella Rerum novarum deve essere visto nel contesto dello scontro con l’ideologia marxista che allora si stava affermando. Marx decifra la vita sociale come lotta di classe senza compromessi. In contrasto con questa visione del mondo, portatrice di una antropologia contraria alla prospettiva della filiazione divina e della fraternità in seno a una medesima famiglia umana, il Papa richiama fermamente la Tradizione: in seno alla società il principio organizzatore deve essere non lo scontro tra le classi, ma la giusta relazione tra le persone, in funzione del loro ruolo al servizio di tutti. In questo quadro, lo Stato – cioè ogni governo che corrisponde ai precetti della ragione naturale e degli insegnamenti divini – detiene una autorità che è legittima quando serve l’interesse comune o bene pubblico, favorendo la prosperità sia pubblica che privata e osservando le leggi della giustizia distributiva (cfr RN, nn. 25-28).

Questa sollecitudine va esercitata a vantaggio di tutti: la nazione non ha alcun giovamento se i lavoratori che partecipano con il loro lavoro alla creazione dei beni si trovano oppressi dalla miseria. L’enciclica presenta questa esigenza come un insegnamento della filosofia e della fede cristiana: poiché ogni autorità proviene da Dio, deve essere esercitata secondo il modello divino di una paterna sollecitudine per le singole creature come per il loro insieme, e deve vigilare specialmente sulla sorte dei più poveri. Questo primo pronunciamento, situato nell’ambito del conflitto tra classe operaia diseredata e ricchi capitalisti, pone la base di una finalità sociale comune insistendo sul valore dell’equità.

L’insistenza sull’equità sarà ripresa da Pio XI nella Quadragesimo anno (1931), nel drammatico contesto della crisi mondiale del 1929. Di fronte all’urgenza sociale di una miseria di vaste proporzioni, per assumere la prospettiva del bene comune occorre rivedere la distribuzione delle risorse: «A ciascuno dunque si deve attribuire la sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione dei beni creati, la quale ognuno vede quanto ora sia causa di disagio, per il grande squilibrio fra i pochi straricchi e gli innumerevoli indigenti, venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della giustizia sociale». (QA, n. 60). L’innovazione decisiva di questa enciclica si esprime in una critica argomentata del liberalismo economico. Essa insiste sulla incapacità della libera concorrenza di servire da norma regolatrice della vita economica e sulla necessità di ricollocare quest’ultima sotto la legge di un principio direttivo giusto ed efficace: la giustizia e la carità sociali. Spetta ai poteri pubblici di costituire, tutelare e difendere un ordinamento giuridico e sociale che informi tutta la vita economica, penetri le istituzioni e la vita dei popoli. Il bene comune è quindi colto come un processo dinamico in cui le diverse parti dell’organismo sociale, nel mutuo vincolo di cooperazione che le unisce, si perfezionano sempre più nella carità. In effetti, se l’esercizio della carità sociale non può mai sostituire i doveri di giustizia, la sola giustizia non può giungere alla unione delle volontà e all’avvicinamento dei cuori (cfr ivi, n. 89).

Bene delle persone e bene comune

Tuttavia, non tutti i mezzi di costrizione sociale sono conformi a questo fine. Nella enciclica Mit brennender Sorge (1937), Pio XI richiama i diritti naturali inerenti a ogni persona umana, diritti che essa riceve da Dio in quanto essere creato a sua immagine e somiglianza. Tali diritti devono rimanere al riparo da ogni collettività che mirasse a negarli, abolirli o trascurarli. Nel contesto dell’ascesa del nazionalsocialismo in Germania, Pio XI ricorda che questi diritti pongono limiti all’azione dello Stato, mettendo in evidenza il fondamento antropologico della nozione di bene comune: «il vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto personale e legame sociale, come anche dal fine della società determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di cui l’uomo ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e quello degli altri» (Mit brennender Sorge, n. 8). L’unità del corpo non si oppone al rispetto di ciascun membro.

Il lavoro di decifrazione della realtà sociale da parte della Chiesa nel corso della prima metà del XX secolo viene ripreso dal papa Giovanni XXIII alla vigilia di quell’aggiornamento nel quale egli impegna la Chiesa cattolica con la convocazione del Concilio Vaticano II. L’enciclica Mater et magistra (1961) propone una sintesi di questo lavoro, definendo il bene comune come l’«insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (MM, n. 65). Questo insieme di condizioni sociali suppone l’interazione, armonizzata dai poteri pubblici, tra i diversi corpi intermedi perché la socializzazione si realizzi nel rispetto di ogni persona umana. La nuova elaborazione di questa nozione di socializzazione, che traduce la naturale tendenza degli esseri umani ad associarsi per conseguire i beni desiderabili per ciascuno ma che sono fuori della portata degli individui isolati, è una caratteristica del testo dell’enciclica. Tale tendenza all’associazione deve coniugarsi con l’esercizio di una libertà responsabile, poiché la comunità autentica è una comunità di persone, di soggetti di diritti portatori di un ruolo da svolgere al servizio di tutti (cfr ivi, nn. 59-67). Di conseguenza, questo processo passa attraverso l’istituzione di un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia, del quale Giovanni XXIII riconoscerà, due anni più tardi, nella Pacem in terris, la prossimità con la nozione dei diritti e doveri sviluppata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Per la prima volta, a livello di magistero, Giovanni XXIII enuncia chiaramente la validità della nozione di diritti umani, ereditata dalle elaborazioni del XVIII secolo e attualizzata nella Dichiarazione dell’ONU. Essa entra così nel vocabolario del magistero, accompagnata dal richiamo a quello che ne è, per i cristiani, il fondamento (cfr PT, n. 75).

Bene comune universale

Nell’ordine internazionale è noto quanto sia difficile a una autorità nazionale o regionale esercitarsi assumendo come prospettiva il bene comune universale. Tuttavia il Papa non rinuncia ad affermarne la validità. La prospettiva del bene comune può allora enunciarsi come la volontà di garantire l’esistenza e la sicurezza nella pace di ogni Stato, animato dalla convinzione di una uguale dignità e di una solidarietà efficace, mediante l’organizzazione di un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia e sulla ricerca di equi compromessi (cfr PT, n. 54). Con realismo l’enciclica sottolinea la grande sfida rappresentata da questa affermazione di un bene comune universale da promuovere, riconoscendone il quasi fallimento attuale (cfr ivi, n. 70), ma in pari tempo precisando le condizioni del sorgere di una autorità internazionale.

Questa universalizzazione del concetto di bene comune sarà ripresa nella costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II (1965). Il bene comune universale è l’obiettivo della comunità umana pensata come comunione di persone (cfr GS, n. 26). Tale espressione sottolinea l’interdipendenza essenziale tra sviluppo integrale dell’uomo e sviluppo della società stessa. La persona umana, di sua natura, ha bisogno di una vita sociale e, tenendo conto della sua fragilità nativa, deve essere il principio, il soggetto e il fine di ogni istituzione (cfr ivi, n. 25). Del resto, proprio per questo il Concilio include nella definizione del bene comune (desunta dalla Mater et magistra) la menzione dei “gruppi” (e non solo delle persone): «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente» (ivi, n. 26).

Il testo conciliare approfondisce il concetto di socializzazione articolandolo con una concezione dell’uomo quale essere relazionale. In particolare, viene posto l’accento sulla permanente conversione al bene che deve sorreggere il movimento di socializzazione, in un contesto in cui l’egoismo e l’orgoglio inquinano gravemente il clima sociale (cfr ivi, n. 25). Infatti il bene è una realtà spirituale che si dispiega all’interno di un ordine proprio delle comunità umane. L’ordine sociale si fonda sulla verità, si realizza nella giustizia – che deve essere vitalizzata dall’amore – e trova nella libertà un equilibrio sempre più umano (cfr ivi, n. 26). Il Concilio innova, sottolineando la dimensione spirituale della genesi del concetto di bene comune, e aprendo un cammino, spesso arduo, che richiede profonde trasformazioni delle mentalità e delle strutture sociali.

Solidarietà e carità

La Populorum progressio, enciclica di Paolo VI (1967), conferirà a questa dimensione di solidarietà internazionale del bene comune tutta la sua ampiezza, affermando che «la questione sociale ha acquistato una dimensione mondiale» (PP, n. 3) per permettere a tutti uno «sviluppo integrale» (ivi, n. 5). Le intuizioni principali di questo testo sono state costantemente riprese. Così, vent’anni dopo, nella Sollicitudo rei socialis (1987), Giovanni Paolo II mette in evidenza la virtù della solidarietà: «non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti» (SRS, n. 38). Questa virtù sociale conduce a lottare contro quelle tendenze – «brama del profitto» e «sete del potere» – che portano al formarsi di strutture sociali in cui si traduce la negazione del bene altrui e che vengono qualificate come «strutture di peccato» (ivi). Discernere questo male morale e opporsi alla negazione della umanità comune si coniuga nella coscienza col riconoscimento della virtù della solidarietà, considerata come ciò che dà attuazione al principio evangelico della vita data per tutti: «l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a “perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a “servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto» (ivi). Questa riflessione sottolinea con forza la prospettiva dinamica del bene comune: un appello insistente e urgente a impegni personali e collettivi, a livello nazionale e internazionale, miranti a far sì che i popoli si riconoscano mutuamente e agiscano in un comune cammino di responsabilità sociale e solidale.

Un’ulteriore interpretazione delle intuizioni di Paolo VI è compiuta da Benedetto XVI nella Caritas in veritate (2009), che riafferma il carattere centrale della dinamica del bene comune, «criterio di orientamento dell’azione morale» (CV, n. 7). La prospettiva del bene comune è parte dello spiegamento concreto e operativo della carità: la prospettiva sociale più alta, conforme alla vocazione umana e alla sua perfezione, consiste nell’amare come Dio ama; amare è dunque la vocazione sociale della comunità umana (cfr ivi). La dialettica spesso conflittuale tra il “voler vivere” (sicurezza) e il “volere che l’altro viva conformemente alla sua vocazione al bene vivere” (ordinamento giuridico fondato sulla giustizia) trova il suo principio di soluzione solo nel movimento che la ispira: dare la propria vita perché l’altro abbia la vita. La carità è il principio regolatore che anima la dinamica del bene comune: servire la carità è la missione storica di ogni comunità. Dimenticare o negare ciò, significherebbe privarsi delle energie necessarie per superare gli ostacoli che di continuo sorgono nell’esercizio concreto della giustizia sociale, in cui la lotta per la vita tende a mettere in crisi il dono reciproco.

Una prospettiva teologica

Al termine di questo itinerario, si comprende meglio come la nozione di bene comune si sia sviluppata in funzione di ogni singola epoca. Ma una costante appare: il fondamento di una antropologia dell’essere umano quale essere relazionale, in contrasto con una visione atomizzata dell’individuo che si concepisce libero solo se disimpegnato da ogni vincolo sociale. Questa concezione relazionale dell’esistenza umana, dell’unità della famiglia umana e del suo sviluppo verso il bene è chiaramente teologica. Essa esige, come afferma Benedetto XVI, che ci si impegni «incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria» (CV, n. 42). L’uomo non può sviluppare la propria vocazione a essere immagine di Dio se non entro una rete di interdipendenze sociali che, per salvaguardarlo dalla violenza e dalla morte, si prendono cura nella maniera più ravvicinata dei suoi bisogni esistenziali e della sua sicurezza, orientando le forze sociali verso un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia.

La prospettiva è molto concreta: si tratta di articolare le interdipendenze sociali mediante le istituzioni e il diritto. Ma essa è anche chiaramente trascendente: il bene comune potrà essere conseguito il più pienamente possibile soltanto se le strutture sociali si lasciano ispirare, anche a loro insaputa, da questa dinamica della carità, rivelata come principio operatore del superamento degli egoismi personali e collettivi. Certo, il concetto di bene comune non è facilmente riducibile in espressioni semplici. Non è possibile fornirne una rappresentazione statica, poiché esso è per essenza un processo – mai definitivamente compiuto – di penetrazione di uno stato della coscienza nel nucleo centrale della cultura. Esso orienta le forze antagoniste verso l’impegno di tener conto dell’altro, lasciandosi plasmare dalla dinamica della carità. Il lento processo del bene comune è un incessante lavoro della carità che feconda la vita dell’uomo, dal più vicino al più lontano, fino alla vita delle istituzioni internazionali. Questa dinamica di carità e apertura alla trascendenza, che è opera dello Spirito, costituisce il nucleo centrale dei pronunciamenti della Chiesa. Essa non può non annunciare ciò che la costituisce. Può essere considerata utopistica nel suo discorso di fronte a egoismi e violenze, che a ogni livello non cessano di prevalere. Ma, ignorando o minimizzando questa esigenza, si misconoscerebbe il fondamento del suo discorso sociale, che è proclamazione di fede, atto di fedeltà e di speranza in quel Dio che ci ha tutto detto nel suo Figlio.

Risorse

CV = BENEDETTO XVI, enciclica Caritas in veritate, 2009.
DC = BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, 2005.
GS = CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965.
MM = GIOVANNI XXIII, enciclica Mater et magistra, 1961.
Mit Brennender Sorge = P IO XI, enciclica Mit Brennender Sorge, 1937.
PT = G IOVANNI XXIII, enciclica Pacem in terris, 1963.
PP = P AOLO VI, enciclica Populorum progressio, 1967.
QA = P IO XI, enciclica Quadragesimo anno, 1931.
RN = L EONE XIII, enciclica Rerum novarum, 1891.
SRS = G IOVANNI P AOLO II, enciclica Sollicitudo rei socialis, 1987

La rubrica «Cristiani e cittadini» è realizzata in collaborazione con il CERAS (Centre de Recherche et Action Sociales) di Parigi e la sua rivista Projet. Traduzione italiana a cura di Rocco Baione SJ.
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