Bene comune
Il bene comune è il principio organizzatore dell’intero discorso sociale
della Chiesa in materia politica, sociale ed economica. Radicato in una
lunga tradizione di pensiero, esso rappresenta una reinterpretazione
della tradizione filosofica greca da parte della filosofia scolastica.
Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae (1265-1274), articola
l’apporto del pensiero di Aristotele con le esigenze del pensiero
cristiano. Per il filosofo greco, l’uomo è un essere politico che vive
grazie alla città e all’interno di essa. La politica è l’obiettivo
ultimo, che organizza le relazioni tra gli uomini; il suo principio di
azione è il bene maggiore della città, il bene perfetto che basta a se
stesso, il bene umano. Per Tommaso la comunità politica ha per fine non
di asservire l’uomo, ma di farlo nascere a se stesso aiutandolo a
raggiungere un fine più alto: il bene vivere o la felicità di vivere
insieme. L’ordinamento giuridico incaricato di dire il diritto è animato
dalla virtù della giustizia ed esercita una costrizione ragionevole
sulle persone per orientarle verso il loro fine comune. Così la comunità
politica permette alla società di realizzarsi come comunità di persone
orientate verso il bene, in modo che l’uomo, sorretto dal progetto
creatore e salvatore di Dio, pervenga al compimento della propria
umanità.
Genesi del bene comune
Questa eredità
teologica, antropologica ed etica, è assunta nell’insegnamento sociale
della Chiesa mediante la nozione di bene comune, con contributi
apportati da ciascuna delle encicliche sociali in funzione dei propri
contesti.
Il pronunciamento inaugurale di Leone XIII nella Rerum novarum deve
essere visto nel contesto dello scontro con l’ideologia marxista che
allora si stava affermando. Marx decifra la vita sociale come lotta di
classe senza compromessi. In contrasto con questa visione del mondo,
portatrice di una antropologia contraria alla prospettiva della
filiazione divina e della fraternità in seno a una medesima famiglia
umana, il Papa richiama fermamente la Tradizione: in seno alla società
il principio organizzatore deve essere non lo scontro tra le classi, ma
la giusta relazione tra le persone, in funzione del loro ruolo al
servizio di tutti. In questo quadro, lo Stato – cioè ogni governo che
corrisponde ai precetti della ragione naturale e degli insegnamenti
divini – detiene una autorità che è legittima quando serve l’interesse
comune o bene pubblico, favorendo la prosperità sia pubblica che privata
e osservando le leggi della giustizia distributiva (cfr RN, nn. 25-28).
Questa sollecitudine va esercitata a vantaggio di tutti: la
nazione non ha alcun giovamento se i lavoratori che partecipano con il
loro lavoro alla creazione dei beni si trovano oppressi dalla miseria.
L’enciclica presenta questa esigenza come un insegnamento della
filosofia e della fede cristiana: poiché ogni autorità proviene da Dio,
deve essere esercitata secondo il modello divino di una paterna
sollecitudine per le singole creature come per il loro insieme, e deve
vigilare specialmente sulla sorte dei più poveri. Questo primo
pronunciamento, situato nell’ambito del conflitto tra classe operaia
diseredata e ricchi capitalisti, pone la base di una finalità sociale
comune insistendo sul valore dell’equità.
L’insistenza sull’equità sarà ripresa da Pio XI nella Quadragesimo anno
(1931), nel drammatico contesto della crisi mondiale del 1929. Di
fronte all’urgenza sociale di una miseria di vaste proporzioni, per
assumere la prospettiva del bene comune occorre rivedere la
distribuzione delle risorse: «A ciascuno dunque si deve attribuire la
sua parte di beni e bisogna procurare che la distribuzione dei beni
creati, la quale ognuno vede quanto ora sia causa di disagio, per il
grande squilibrio fra i pochi straricchi e gli innumerevoli indigenti,
venga ricondotta alla conformità con le norme del bene comune e della
giustizia sociale». (QA, n. 60). L’innovazione decisiva di questa
enciclica si esprime in una critica argomentata del liberalismo
economico. Essa insiste sulla incapacità della libera concorrenza di
servire da norma regolatrice della vita economica e sulla necessità di
ricollocare quest’ultima sotto la legge di un principio direttivo giusto
ed efficace: la giustizia e la carità sociali. Spetta ai poteri
pubblici di costituire, tutelare e difendere un ordinamento giuridico e
sociale che informi tutta la vita economica, penetri le istituzioni e la
vita dei popoli. Il bene comune è quindi colto come un processo
dinamico in cui le diverse parti dell’organismo sociale, nel mutuo
vincolo di cooperazione che le unisce, si perfezionano sempre più nella
carità. In effetti, se l’esercizio della carità sociale non può mai
sostituire i doveri di giustizia, la sola giustizia non può giungere
alla unione delle volontà e all’avvicinamento dei cuori (cfr ivi, n. 89).
Bene delle persone e bene comune
Tuttavia, non tutti i mezzi di costrizione sociale sono conformi a questo fine. Nella enciclica Mit brennender Sorge
(1937), Pio XI richiama i diritti naturali inerenti a ogni persona
umana, diritti che essa riceve da Dio in quanto essere creato a sua
immagine e somiglianza. Tali diritti devono rimanere al riparo da ogni
collettività che mirasse a negarli, abolirli o trascurarli. Nel contesto
dell’ascesa del nazionalsocialismo in Germania, Pio XI ricorda che
questi diritti pongono limiti all’azione dello Stato, mettendo in
evidenza il fondamento antropologico della nozione di bene comune: «il
vero bene comune, in ultima analisi, viene determinato e conosciuto
mediante la natura dell’uomo con il suo armonico equilibrio fra diritto
personale e legame sociale, come anche dal fine della società
determinato dalla stessa natura umana. La società è voluta dal Creatore
come mezzo per il pieno sviluppo delle facoltà individuali e sociali, di
cui l’uomo ha da valersi, ora dando ora ricevendo per il bene suo e
quello degli altri» (Mit brennender Sorge, n. 8). L’unità del corpo non si oppone al rispetto di ciascun membro.
Il
lavoro di decifrazione della realtà sociale da parte della Chiesa nel
corso della prima metà del XX secolo viene ripreso dal papa Giovanni
XXIII alla vigilia di quell’aggiornamento nel quale egli impegna la
Chiesa cattolica con la convocazione del Concilio Vaticano II.
L’enciclica Mater et magistra (1961) propone una sintesi di
questo lavoro, definendo il bene comune come l’«insieme di quelle
condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo
sviluppo integrale della loro persona» (MM, n. 65). Questo insieme di
condizioni sociali suppone l’interazione, armonizzata dai poteri
pubblici, tra i diversi corpi intermedi perché la socializzazione si
realizzi nel rispetto di ogni persona umana. La nuova elaborazione di
questa nozione di socializzazione, che traduce la naturale tendenza
degli esseri umani ad associarsi per conseguire i beni desiderabili per
ciascuno ma che sono fuori della portata degli individui isolati, è una
caratteristica del testo dell’enciclica. Tale tendenza all’associazione
deve coniugarsi con l’esercizio di una libertà responsabile, poiché la
comunità autentica è una comunità di persone, di soggetti di diritti
portatori di un ruolo da svolgere al servizio di tutti (cfr ivi,
nn. 59-67). Di conseguenza, questo processo passa attraverso
l’istituzione di un ordinamento giuridico fondato sulla giustizia, del
quale Giovanni XXIII riconoscerà, due anni più tardi, nella Pacem in terris, la prossimità con la nozione dei diritti e doveri sviluppata nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo
adottata dalle Nazioni Unite nel 1948. Per la prima volta, a livello di
magistero, Giovanni XXIII enuncia chiaramente la validità della nozione
di diritti umani, ereditata dalle elaborazioni del XVIII secolo e
attualizzata nella Dichiarazione dell’ONU. Essa entra così nel
vocabolario del magistero, accompagnata dal richiamo a quello che ne è,
per i cristiani, il fondamento (cfr PT, n. 75).
Bene comune universale
Nell’ordine
internazionale è noto quanto sia difficile a una autorità nazionale o
regionale esercitarsi assumendo come prospettiva il bene comune
universale. Tuttavia il Papa non rinuncia ad affermarne la validità. La
prospettiva del bene comune può allora enunciarsi come la volontà di
garantire l’esistenza e la sicurezza nella pace di ogni Stato, animato
dalla convinzione di una uguale dignità e di una solidarietà efficace,
mediante l’organizzazione di un ordinamento giuridico fondato sulla
giustizia e sulla ricerca di equi compromessi (cfr PT, n. 54).
Con realismo l’enciclica sottolinea la grande sfida rappresentata da
questa affermazione di un bene comune universale da promuovere,
riconoscendone il quasi fallimento attuale (cfr ivi, n. 70), ma in pari tempo precisando le condizioni del sorgere di una autorità internazionale.
Questa universalizzazione del concetto di bene comune sarà ripresa nella costituzione pastorale Gaudium et spes
del Concilio Vaticano II (1965). Il bene comune universale è
l’obiettivo della comunità umana pensata come comunione di persone (cfr
GS, n. 26). Tale espressione sottolinea l’interdipendenza essenziale tra
sviluppo integrale dell’uomo e sviluppo della società stessa. La
persona umana, di sua natura, ha bisogno di una vita sociale e, tenendo
conto della sua fragilità nativa, deve essere il principio, il soggetto e
il fine di ogni istituzione (cfr ivi, n. 25). Del resto, proprio per questo il Concilio include nella definizione del bene comune (desunta dalla Mater et magistra)
la menzione dei “gruppi” (e non solo delle persone): «l’insieme di
quelle condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi
quanto ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più
pienamente e più speditamente» (ivi, n. 26).
Il testo
conciliare approfondisce il concetto di socializzazione articolandolo
con una concezione dell’uomo quale essere relazionale. In particolare,
viene posto l’accento sulla permanente conversione al bene che deve
sorreggere il movimento di socializzazione, in un contesto in cui
l’egoismo e l’orgoglio inquinano gravemente il clima sociale (cfr ivi,
n. 25). Infatti il bene è una realtà spirituale che si dispiega
all’interno di un ordine proprio delle comunità umane. L’ordine sociale
si fonda sulla verità, si realizza nella giustizia – che deve essere
vitalizzata dall’amore – e trova nella libertà un equilibrio sempre più
umano (cfr ivi, n. 26). Il Concilio innova, sottolineando la
dimensione spirituale della genesi del concetto di bene comune, e
aprendo un cammino, spesso arduo, che richiede profonde trasformazioni
delle mentalità e delle strutture sociali.
Solidarietà e carità
La Populorum progressio,
enciclica di Paolo VI (1967), conferirà a questa dimensione di
solidarietà internazionale del bene comune tutta la sua ampiezza,
affermando che «la questione sociale ha acquistato una dimensione
mondiale» (PP, n. 3) per permettere a tutti uno «sviluppo integrale» (ivi, n. 5). Le intuizioni principali di questo testo sono state costantemente riprese. Così, vent’anni dopo, nella Sollicitudo rei socialis
(1987), Giovanni Paolo II mette in evidenza la virtù della solidarietà:
«non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale
intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al
contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il
bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti
siamo veramente responsabili di tutti» (SRS, n. 38). Questa virtù
sociale conduce a lottare contro quelle tendenze – «brama del profitto» e
«sete del potere» – che portano al formarsi di strutture sociali in cui
si traduce la negazione del bene altrui e che vengono qualificate come
«strutture di peccato» (ivi). Discernere questo male morale e
opporsi alla negazione della umanità comune si coniuga nella coscienza
col riconoscimento della virtù della solidarietà, considerata come ciò
che dà attuazione al principio evangelico della vita data per tutti:
«l’impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso
evangelico, a “perdersi” a favore dell’altro invece di sfruttarlo, e a
“servirlo” invece di opprimerlo per il proprio tornaconto» (ivi).
Questa riflessione sottolinea con forza la prospettiva dinamica del
bene comune: un appello insistente e urgente a impegni personali e
collettivi, a livello nazionale e internazionale, miranti a far sì che i
popoli si riconoscano mutuamente e agiscano in un comune cammino di
responsabilità sociale e solidale.
Un’ulteriore interpretazione delle intuizioni di Paolo VI è compiuta da Benedetto XVI nella Caritas in veritate
(2009), che riafferma il carattere centrale della dinamica del bene
comune, «criterio di orientamento dell’azione morale» (CV, n. 7). La
prospettiva del bene comune è parte dello spiegamento concreto e
operativo della carità: la prospettiva sociale più alta, conforme alla
vocazione umana e alla sua perfezione, consiste nell’amare come Dio ama;
amare è dunque la vocazione sociale della comunità umana (cfr ivi).
La dialettica spesso conflittuale tra il “voler vivere” (sicurezza) e
il “volere che l’altro viva conformemente alla sua vocazione al bene
vivere” (ordinamento giuridico fondato sulla giustizia) trova il suo
principio di soluzione solo nel movimento che la ispira: dare la propria
vita perché l’altro abbia la vita. La carità è il principio regolatore
che anima la dinamica del bene comune: servire la carità è la missione
storica di ogni comunità. Dimenticare o negare ciò, significherebbe
privarsi delle energie necessarie per superare gli ostacoli che di
continuo sorgono nell’esercizio concreto della giustizia sociale, in cui
la lotta per la vita tende a mettere in crisi il dono reciproco.
Una prospettiva teologica
Al
termine di questo itinerario, si comprende meglio come la nozione di
bene comune si sia sviluppata in funzione di ogni singola epoca. Ma una
costante appare: il fondamento di una antropologia dell’essere umano
quale essere relazionale, in contrasto con una visione atomizzata
dell’individuo che si concepisce libero solo se disimpegnato da ogni
vincolo sociale. Questa concezione relazionale dell’esistenza umana,
dell’unità della famiglia umana e del suo sviluppo verso il bene è
chiaramente teologica. Essa esige, come afferma Benedetto XVI, che ci si
impegni «incessantemente per favorire un orientamento culturale
personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di
integrazione planetaria» (CV, n. 42). L’uomo non può sviluppare la
propria vocazione a essere immagine di Dio se non entro una rete di
interdipendenze sociali che, per salvaguardarlo dalla violenza e dalla
morte, si prendono cura nella maniera più ravvicinata dei suoi bisogni
esistenziali e della sua sicurezza, orientando le forze sociali verso un
ordinamento giuridico fondato sulla giustizia.
La prospettiva è
molto concreta: si tratta di articolare le interdipendenze sociali
mediante le istituzioni e il diritto. Ma essa è anche chiaramente
trascendente: il bene comune potrà essere conseguito il più pienamente
possibile soltanto se le strutture sociali si lasciano ispirare, anche a
loro insaputa, da questa dinamica della carità, rivelata come principio
operatore del superamento degli egoismi personali e collettivi. Certo,
il concetto di bene comune non è facilmente riducibile in espressioni
semplici. Non è possibile fornirne una rappresentazione statica, poiché
esso è per essenza un processo – mai definitivamente compiuto – di
penetrazione di uno stato della coscienza nel nucleo centrale della
cultura. Esso orienta le forze antagoniste verso l’impegno di tener
conto dell’altro, lasciandosi plasmare dalla dinamica
della carità. Il lento processo del bene comune è un incessante lavoro
della carità che feconda la vita
dell’uomo, dal più vicino al più lontano, fino alla vita delle
istituzioni internazionali. Questa dinamica
di carità e apertura alla trascendenza, che è opera dello Spirito,
costituisce il nucleo centrale dei
pronunciamenti della Chiesa. Essa non può non annunciare ciò che la
costituisce. Può essere
considerata utopistica nel suo discorso di fronte a egoismi e violenze,
che a ogni livello non cessano
di prevalere. Ma, ignorando o minimizzando questa esigenza, si
misconoscerebbe il fondamento del
suo discorso sociale, che è proclamazione di fede, atto di fedeltà e di
speranza in quel Dio che ci ha
tutto detto nel suo Figlio.
Risorse
CV = BENEDETTO XVI, enciclica Caritas in veritate, 2009.
DC = BENEDETTO XVI, enciclica Deus caritas est, 2005.
GS = CONCILIO VATICANO II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965.
MM = GIOVANNI XXIII, enciclica Mater et magistra, 1961.
Mit Brennender Sorge = P IO XI, enciclica Mit Brennender Sorge, 1937.
PT = G IOVANNI XXIII, enciclica Pacem in terris, 1963.
PP = P AOLO VI, enciclica Populorum progressio, 1967.
QA = P IO XI, enciclica Quadragesimo anno, 1931.
RN = L EONE XIII, enciclica Rerum novarum, 1891.
SRS = G IOVANNI P AOLO II, enciclica Sollicitudo rei socialis, 1987
La rubrica «Cristiani e cittadini» è realizzata in
collaborazione con il CERAS (Centre de Recherche et Action Sociales) di
Parigi e la sua rivista Projet. Traduzione italiana a cura di Rocco Baione SJ.
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