Beautiful Boy

di Felix Van Groeningen
01 Distribution, Stati Uniti 2018, drammatico. Durata: 111 minuti
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2020
La trama del film

Nick è un giovane come tanti altri. Magro e trasandato, i capelli sempre arruffati evocano la sua passione per il disegno, il surf e gli scrittori ribelli; i suoi occhi malinconici mostrano un’indole particolarmente riflessiva. La lontananza fra i genitori divorziati lo ha costretto a trascorrere l’infanzia fra due aeroporti degli Stati Uniti, ma l’amore non gli è mai mancato. Tuttavia, si celano in lui un vuoto, un’insoddisfazione nei confronti della «stupida realtà quotidiana» che inspiegabilmente lo fanno scivolare, appena uscito dall’adolescenza, nel circolo vizioso della droga. Il padre, David, non può che tuffarsi a sua volta in questo abisso, in fondo al quale il suo meraviglioso ragazzo, forse, lo sta ancora aspettando.



Beautiful Boy, pellicola del regista belga Felix Van Groeningen, già autore del noto e struggente Alabama Monroe (2012), è un film che coglie impreparati, come il problema della droga coglierebbe impreparata qualunque famiglia il cui figlio sprofondasse nel vortice dell’abuso di sostanze.

Lo spettatore può essere sorpreso dalla semplicità della cornice di questa storia di dipendenza: una famiglia ordinaria, affaticata come tutte, ma benestante e felice, che ama i propri figli «più di tutto», afferma l’attore Steve Carell nei panni di David Sheff, padre del giovane Nick (interpretato dall’astro nascente Timothée Chalamet) e autore del bestseller autobiografico da cui il film è tratto.

Non si tratta di un film dalla vocazione esplicitamente sociale. Esso non parla del problema dell’abuso di sostanze nella società o dello spaccio e delle sue ragioni demografiche, economiche o culturali. Non indaga i legami complessi esistenti tra droga, criminalità, disagio, emarginazione e disuguaglianze.

Non viene mai mostrato, infatti, dove il protagonista compri le dosi di cui va alla ricerca con i soldi del padre, né chi gliele venda o come. Non va in scena nemmeno il divario tra ricchi e poveri, sul quale spesso si consuma la polemica sull’esistenza di tossicodipendenti “privilegiati” e di altri abbandonati a se stessi. Il film, dunque, non pretende di trarre da questa storia delle conclusioni generali sul fenomeno.

La sua onestà consiste nel portare alle luci della ribalta un esempio unico e peculiare, senza spacciarlo per qualcos’altro. Il film non ricerca in una storia particolare la ricetta per comprendere o risolvere un fenomeno così complesso, ma solo le risorse emotive necessarie a suscitare nel pubblico una riflessione pacata, empatica e rispettosa su questo tema così delicato.

David e Nick sono esattamente ciò che sembrano: un padre e un figlio che hanno avuto la “fortuna” di poter affrontare il tremendo problema della dipendenza con tutti gli utili, ma fragili strumenti necessari a farlo, pur senza alcuna garanzia di successo. La loro è una storia come tante, che emerge in modo sfumato da una sceneggiatura volutamente frammentata in tanti pezzetti di memoria e da una colonna sonora che appare a tratti eccessivamente emozionale.

Eppure, nella sua singolarità, questo racconto porta bene a termine il compito di scuotere la coscienza dello spettatore riguardo a un’unica inquietante verità, che si declina storicamente in un’infinità di modi diversi: l’overdose da stupefacenti è in America la prima causa di morte per le persone sotto i cinquant’anni. Nel 2016 il 2% della popolazione mondiale faceva abuso di sostanze. In Italia questa percentuale si fermava all’1,68%, mentre negli Stati Uniti saliva fino al 5,47%. Inoltre, nel 2017 l’8,57% dei tossicodipendenti avevano tra i 20 e i 24 anni, l’età di Nick al tempo in cui si svolge il racconto di Beautiful Boy (dati tratti da Global Burden of Disease Study, Institute for Health Metrics and Evaluation, Seattle [USA] 2017-2018).

L’impegno sociale del film rimane così sullo sfondo, senza mai essere compiutamente dichiarato, tranne che in un’ultima riga esplicativa prima dei titoli di coda. La sua attenzione è rispettosamente rivolta solo alla storia personale dei membri di questa famiglia, nei quali è facile identificarsi. La luce dolce e i riflessi sognanti di cui si colora la fotografia contribuiscono a suscitare la compassione dello spettatore, inchiodato alla poltrona del cinema e in un’attesa costante (a tratti costruita un po’ artificialmente) del prossimo dialogo.

Ciò che scuote e crea smarrimento è l’indecifrabilità delle infinite possibili concause che potrebbero aver generato nel giovane protagonista il bisogno di evadere, per mezzo della chimica, dall’insoddisfazione e dal vuoto esistenziale che gravano sulla sua routine quotidiana. «Perché?!» grida il padre all’ennesimo ricovero, quando si scopre che Nick ha iniziato ad assumere metamfetamine, un composto chimico che – molto più della cocaina – stimola la produzione di dopamina nel cervello e ne ritarda il riassorbimento, provocando una prolungata sensazione di eccitazione e carica emotiva.

A questo «perché» non c’è una risposta chiara. A nulla servirà l’indagine meticolosa che David metterà in campo (forse a causa del suo approccio professionale, in quanto giornalista) nel tentativo di trovare un modo razionale per convincere il figlio a smettere. A null’altro gli servirà provare sulla propria pelle l’ebbrezza da chrystal meth, se non a ricordargli che ogni esperienza esistenziale è unica e non riproducibile, inafferrabile nella sua essenza.

Ciò su cui il film sembra quindi implicitamente insistere è proprio l’invito a liberarsi dalla pretesa di aver compreso in tutto e per tutto la situazione di Nick, che all’apparenza non ha, in effetti, nulla di eccezionale.

Tutti da adolescenti abbiamo vissuto qualche momento di alienazione, o siamo stati sottoposti al fascino di qualche poeta o cantautore “maledetto”. Tutti abbiamo avuto la sensazione che la quotidianità fosse noiosa e banale e abbiamo coltivato un desiderio di evasione a fronte di uno strano senso di depressione. Tutti, infine, abbiamo sperimentato la sensazione che, anche solo per “troppo amore”, qualcuno volesse controllarci o pretendere di aver già scritto il nostro futuro, per quanto radioso potesse sembrare. Ma non per questo tutti siamo caduti nella trappola della droga, anche se forse non sapremmo spiegare bene il perché.

Tuttavia, nel film, nonostante ciascun personaggio sembri avere le carte in regola per convincere Nick che non ci sia alcun motivo di sentirsi così afflitto, nessuno è in realtà in grado di farlo. Emerge così l’evidenza che il comportamento di ogni individuo sia influenzato da un’irripetibile mescolanza di elementi personali, sociali e ambientali intrecciati così strettamente tra loro da apparire come un mistero.

A forza di tentativi, miglioramenti e ricadute, il racconto procede in un alternarsi di sospiri di sollievo e nodi allo stomaco, ritmato da uno stile narrativo che non impone allo spettatore di schierarsi dalla parte di nessuno. L’empatia che il regista riesce a evocare viene indirizzata infatti a tutti i personaggi coinvolti in questa storia di dolore e di male, nella quale però non è possibile ravvisare alcun diretto colpevole, nemmeno la società in generale.

Tra il bisogno che spinge Nick a drogarsi e i suoi tragici effetti (aggressività, tradimento, disturbi della personalità, violenza, ansia, paura, gesti autodistruttivi, ecc.), la questione della responsabilità non si riduce all’individuazione di una colpa.

Al contrario, la responsabilità sembra passare attraverso la capacità di ciascun personaggio di accettare i propri limiti, insieme all’impossibilità di controllare la realtà che lo circonda. Nonostante questo senso di impotenza, come scritto da Bukowski nella poesia preferita di Nick, Let it enfold you, chi è davvero responsabile non smette di «lasciarsi coinvolgere» dai «buoni momenti» che la vita offre, di rispondere alla presenza degli altri, di rimanere aperto ad accogliere i piccoli dettagli della quotidianità.

Nonostante la sua tentazione di cedere alla disperazione e alla rassegnazione, nella figura di David traspare la tenacia di un padre che, come quello della parabola dei due figli nel vangelo di Luca, matura fino ad accettare per amore di lasciare al figlio tutta la libertà che quest’ultimo pretende, ma rimanendo disposto ad attendere alla finestra, scrutando l’orizzonte, il suo possibile ritorno. Un ritorno che non è mai garantito, nemmeno dalla consapevolezza che «la ricaduta fa parte del processo di guarigione», come afferma il medico che ha in cura Nick.

Questa incertezza pervade l’opera di Van Groeningen fino a un finale aperto e sofferto, che lascia timidamente intravedere il futuro. Un epilogo diverso da tanti altri, che guadagna in coerenza ed efficacia per il fatto di essere legato a una vicenda realmente accaduta, fatta di personaggi in carne e ossa che ancora oggi lottano per liberarsi ogni giorno di più dallo spettro di questo male.

 
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