Il notissimo testo biblico della cosiddetta "Torre di Babele" (Genesi 11, 1-9) è tradizionalmente interpretato secondo
lo schema classico dei racconti della punizione divina in risposta all'orgoglio (in greco hybris)
umano. Tale schema prevede nella sua completezza la presenza di cinque
elementi
fondamentali: 1) un progetto che un uomo o degli uomini (o donne)
elaborano per eguagliare e raggiungere la grandezza degli dèi; 2) questi
si accorgono che qualcuno sta tentando
di paragonarsi o arrivare a loro (e con buone probabilità di successo);
3) gli dèi mettono in atto un piano per far fallire il progetto
dell'ingegno umano; 4) tale
progetto inesorabilmente fallisce; 5) al fallimento segue la punizione
inflitta dalla divinità. Lo storico greco Erodoto (V sec. a.C.) ha
sintetizzato bene questa battaglia
tra l'umanità e gli dèi, in cui questi escono sempre vittoriosi e
l'orgoglio umano si deve piegare alla nemesis dell'umiliazione.
«Non vedi come gli dèi
schiantano sempre le case più grandi e gli alberi più alti con i loro
fulmini? Certamente essi amano buttare giù qualunque cosa che si esalta.
Così spesso
un uomo potente è sconfitto quando gli dèi, nella loro gelosia, inviano
il terrore e la tempesta dal cielo e quegli perisce in un modo
altrimenti indegno. Gli dèi
non permettono a nessuno di avere un'opinione troppo alta di sé» (Storie
VII, 10). A dire il vero, non sempre nei racconti che l'antichità ci ha
trasmesso
sono presenti tutti i punti del genere letterario, come nel tentativo di
Icaro di costruirsi ali capaci di arrivare all'Olimpo attraversando i
cieli, o nel destino di Agamennone
secondo la tragedia omonima di Eschilo.
Una interpretazione tradizionale
Genesi 11, 1-9
1 Tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura
nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da
pietra e il bitume da malta. 4 Poi dissero: «Venite,
costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e
facciamoci un nome, per non disperderci
su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6
Il Signore disse: «Ecco,
essi sono un unico popolo e hanno tutti un'unica lingua; questo è
l'inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non
sarà loro impossibile. 7
Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta
la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra
e di là il Signore li disperse su tutta la terra.
Nel racconto biblico, invece, sembrano essere presenti tutti gli elementi tradizionali della hybris umana sconfitta e della punizione divina in forma di nemesis.
È
a partire da questo genere letterario che si sono mosse tutte le
interpretazioni del nostro brano, sin dalle più antiche che trovano eco
nell'opera di Giuseppe Flavio (Antiquitates
1.4.3, del I d.C.). Il dover dare ragione di un mondo che parla lingue
diverse e nel quale le diverse popolazioni e culture non si comprendono
avrebbe portato gli autori sacri a
presentare un tale scenario (evidente a tutti) come il risultato
dell'orgoglio umano che ha utilizzato male del dono di poter comunicare
liberamente e con pienezza e ha pensato
di poter costruire una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e così "farsi un nome", ovvero diventare come Dio (v. 4, letto alla luce della
tentazione originaria del serpente in Genesi 3, 5: Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio). Ancora più evocativo
a questo riguardo diventa il collegamento del nome Babele (di per sé in ebraico derivato dalla radice che indica confondere, confusione) con la città
di Babilonia, nella quale si avevano i tipici templi a gradini (le ziggurat),
il più alto e imponente dei quali era stato costruito proprio negli
anni della deportazione
degli ebrei nel VI secolo a.C., epoca nella quale è avvenuta la
redazione finale del nostro racconto. Eppure questa interpretazione, che
apparentemente sembra dare ragione
dei diversi snodi del testo, si scontra con molti elementi che sembrano
fare resistenza allo schema "peccato di orgoglio / castigo divino".
Innanzitutto
non si capisce
in che cosa consista il vero peccato degli uomini. Non esiste alcun
divieto di Dio nel costruire una città e una torre, e solo una lettura
già condizionata dall'orizzonte
interpretativo della hybris può far leggere le espressioni
utilizzate dall'umanità in prospettiva negativa. Le espressioni di Dio
non esprimono d'altro canto
alcun riferimento all'ira o a una condanna cui debba fare seguito
una pena. Dio esprime piuttosto un timore che qualche cosa di fatto
avvenga, e afferma che quanto avranno
in progetto di fare non sarà loro impossibile (v. 6). Per
comprendere allora il perché di una tale preoccupazione che porta
all'intervento di Dio, occorre allargare
lo sguardo dalla semplice lettura di questi nove versetti - spesso
interpretati nella loro autonomia - a quanto li aveva preceduti.
La dispersione come bene
Genesi 10 riporta, sotto la forma di genealogie dei tre figli
di Noè (Sem, Cam e Iafet), una vera e propria "tavola dei popoli" che
abbraccia tutto il
"mondo" allora conosciuto. Avevamo già sottolineato in questa stessa
rubrica (cfr «Siamo tutti fratelli?», in Aggiornamenti Sociali 4
[2010]
311-314) l'importanza dell'identità "fraterna" dell'intera umanità. La
comune radice in Noè come padre dei tre fratelli capostipiti di tutte le
diverse
nazioni ed etnie, è tanto più importante quanto più fotografa realmente
la diversità delle genti presenti sulla terra. Ma qui troviamo la prima
sorpresa.
Una tale diversità, infatti, era stata presentata in tutta la sua
bellezza proprio come risposta al comandamento di Dio. Sia all'inizio di
tutto il progetto creaturale, sia
all'uscita dall'arca dopo il diluvio, Dio ripete: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra (Genesi
1, 28 e 9, 1). Per poter obbedire a tale comando, l'umanità
salvata dal diluvio universale è invitata a far ripartire il progetto di
Dio "moltiplicandosi" e "riempiendo la terra" (e la lista delle
generazioni che
partono da Sem, Cam e Iafet serve proprio a mostrare come questo
avvenga). Non c'è altra possibilità di farlo se non grazie alla
"dispersione" dei popoli.
Ecco allora che la lista dei discendenti dei figli di Noè è segnata dal
contrappunto della "dispersione": Da costoro derivarono le genti disperse per
le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni (10, 5). In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei
(10, 18). Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro
genealogie, nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le
nazioni sulla terra dopo il diluvio
(10, 32).
Vale la pena sottolineare come il tema della "dispersione"
sembri essere quello centrale anche nel racconto della torre di Babele.
Essere dispersi è
infatti il grande timore dell'umanità tutta radunata in un unico luogo
in 11, 4, timore che porta a desiderare di costruire la città e la
torre. D'altro canto, è
l'ultima parola del nostro racconto come risultato dell'azione di Dio: li disperse su tutta la terra
(11, 9). Strana "punizione" allora, quella che spinge l'umanità
al bene originario della diversità e dell'abitare tutta la terra. La
dispersione volutamente sottolineata nel narrare le genealogie umane del
capitolo 10 si collega con l'episodio
di Babele proprio nel diverso modo di concepire l'unità. Se nel capitolo
11 tale modo è descritto come un'uniformità di lingua (cioè di pretesa
di uniformità
culturale intesa come bene, come vedremo sotto), quello precedente
mostra l'unità come una perenne meditazione della comune "fraternità".
Sarà nel
potersi riscoprire fratelli che la dispersione realizzerà appieno il
comando divino della creazione. «La dispersione voluta da Dio è quella
per cui tutta la
terra verrà popolata. La dialettica di unità-dispersione non presuppone
che famiglie, lingue, terre, nazioni diverse siano una realtà negativa o
disubbidiente.
La loro diversità è voluta, rientra nel volere di Dio. Il progetto che
Dio ha in serbo per l'umanità non comporta né un'omogeneità pavida e
utilitaristica,
ricercata come se Dio non fosse il Signore del creato, né una
dispersione delle varie parti dell'umanità, attuata come se le varie
componenti dell'umanità fossero
autonome e non un tutt'uno» (BRUEGGEMANN W., Genesi, Claudiana, Torino 2002, 127-128).
Una lingua, una cultura per tutti?
L'espressione che apre il racconto in 11, 1, tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole non dice solo di una uniformità linguistica, ma evoca anche quella
culturale, dato che devarîm in ebraico ("parole") non è
termine solo afferente alla lingua, ma copre tutta l'area semantica per
"concetti,
realtà (anche materiali)". E una tale uniformità culturale è stata
propagandata come necessaria e buona nel mondo "occidentale", forse per
la
prima volta proprio dall'impero babilonese del VII-V sec. a.C., che ha
distrutto Gerusalemme e deportato tutto il regno di Giuda. Lo stesso
farà poi Alessandro Magno e la
cultura greco-macedone ellenistica e, da quel momento, ogni potenza
dominatrice tenterà lo stesso processo. Così il racconto del desiderio
espresso dalle parole: Venite,
costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome,
di 11, 4, può senz'altro essere considerato come il desiderio di ogni
totalitarismo
e di ogni imperialismo. C'è quindi una stretta equivalenza tra il
desiderio di una città e di una torre che tocchi il cielo, il desiderio
di immortalità (l'espressione
"farsi un nome" secondo la maggioranza degli studiosi evoca proprio il
desiderio di immortalità, cfr 2Samuele 18, 18) e l'anelito all'uniformità culturale.
Da
quei tempi antichi fino alle grandi dittature che hanno caratterizzato
la storia dei giorni nostri, il delirio del dominio umano ha sempre
imposto anche uniformità di cultura,
costume, morale, "teologia" e pensiero. "Pensiero unico" che regoli ogni
pensiero individuo; solo quelle uniche parole possono allora
essere dette, prodotte
e pensate. Anche «la religione può fornire questo tipo di unità e
sanzionare l'oppressione sociale. Dunque, in un contesto siffatto la
torre potrebbe benissimo
partecipare del "religioso" e assurgere a simbolo di unità. Il nostro
testo potrebbe anche essere una critica dei tentativi religiosi di
reprimere il pluralismo.
Oppure potrebbe cercare di costruire una "copertura sacra" che consolidi
la libertà umana» (BRUEGGEMANN W., Genesi, cit. 129).
Lo
stesso può
valere oggi nella tentazione dell'esportazione forzata di un unico
modello di democrazia, considerato quello "buono", o della logica
globalizzata del mercato. Giovanni
Paolo II nel 2001 affermava: «La globalizzazione è divenuta rapidamente
un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto
lo strumento
di una nuova cultura. Molti osservatori hanno colto il carattere
intrusivo, perfino invasivo, della logica di mercato, che riduce sempre
più l'area disponibile alla comunità
umana per l'azione pubblica e volontaria a ogni livello. Il mercato
impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la
sua scala di valori. Le persone che ne
sono soggette spesso considerano la globalizzazione come un'inondazione
distruttiva che minaccia le norme sociali che le hanno tutelate e i
punti di riferimento culturali che hanno
dato loro un orientamento di vita. [...] La globalizzazione non deve
essere un nuovo tipo di colonialismo. Deve rispettare la diversità delle
culture che, nell'ambito dell'armonia
universale dei popoli, sono le chiavi interpretative della vita. In
particolare, non deve privare i poveri di ciò che resta loro di più
prezioso, incluse le credenze
e le pratiche religiose, poiché convinzioni religiose autentiche sono la
manifestazione più chiara della libertà umana» (discorso alla
Pontificia Accademia
delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001).
Se così fosse, Genesi 11, 1-9 rappresenta una feroce critica di ogni anelito umano ad appiattire differenze e diversità,
nell'imposizione del "pensiero unico" per farsi un nome. Si può
senz'altro dire che «abbiamo un paradigma, una parabola, che ha le sue
radici in alcune
esperienze storiche. Tuttavia il messaggio è più universale. Il racconto
della torre di Babele non è un oracolo contro Babilonia, impartisce una
lezione universale,
che vale per ogni tempo e ogni popolo: il destino dell'umanità non è una
ricerca chimerica dell'immortalità. È nell'avventura della storia,
nella diversificazione
delle culture e nella disseminazione delle nazioni su tutta la
superficie della terra. Non si può più parlare dell'unità dell'umanità
allora? Forse sarebbe
meglio parlare non di unità, ma di cooperazione; non di unificazione, ma
di armonia; non di uniformità, ma di concordia. Non possiamo sognare un
linguaggio unico per
tutta l'umanità» (SKA J. L., «Né castigo né satira: il mondo dopo
Babele», in Vita e Pensiero, 4 [2011] 100-101).
Dispersione e diversità: un impegno
Dicevamo che il racconto di Babele è costruito "come se" il risultato
finale fosse proposto a noi come un "castigo" divino per il peccato
dell'umanità.
La situazione che chiunque ha davanti agli occhi (un'umanità dispersa in
una moltitudine di popoli diversi e non più capace di comprendersi date
le molte lingue
e le molte parole-culture) sarebbe così da interpretarsi come un
"male" contrapposto al "bene" originario di una presunta unica umanità
concentrata in un unico luogo e con un'unica lingua e cultura. Abbiamo
però anche visto, dalla lettura del capitolo precedente di Genesi, come tale lettura non possa
essere accolta a rischio di trovarci dinanzi a due testi contrastanti. Sant'Agostino proponeva di leggere Genesi 11 come cronologicamente precedente Genesi
10 per
risolvere il problema, ma non è difficile comprendere l'intento
didattico dell'autore biblico se si pone sufficiente attenzione al
valore narrativo dei testi dei primi capitoli
di Genesi che, da un lato, vogliono spiegare le motivazioni
profonde per cui l'umanità si trova nella condizione che si percepisce
al presente (sarebbe questo il valore
eziologico dei testi), ma, dall'altro, vogliono anche essere una road map per permettere all'umanità di trovare la via per l'obbedienza al desiderio di Dio per il
suo benessere e la sua felicità.
Se è da sempre compito difficile e problematico per l'umanità fare i conti con la varietà dei popoli e con la difficoltà
delle diverse parole con cui si può dire l'esperienza umana - che
è la caratteristica delle differenti culture -, la soluzione non può
essere il semplice
annullamento delle differenze per costruire "una sola città" che voglia
arrivare a essere immortale e onnicomprensiva. Il cammino che il testo
propone apre la strada,
invece, alla possibilità del riconoscimento dei diversi come "fratelli e
sorelle", figlie e figli tutti dell'unico padre che non è Abramo
(l'identità
etnica e religiosa nel monoteismo storico), ma Noè (il giusto con cui viene stipulata l'alleanza eterna di Dio nei confronti di tutta l'umanità, cfr Genesi
9). Il testo biblico propone cioè sia una pista di autocomprensione del
popolo di Israele nei confronti del resto dell'umanità ("tutti i popoli
sono tuoi fratelli
anche se non condividono con te la fede nel Signore Dio"), sia una
modalità di possibili relazioni ("per non farsi guerra occorre
comprendersi anche se si hanno
diverse lingue e diverse parole"). Il fatto che il Nuovo Testamento
vedrà questo processo possibile solo grazie all'intervento dello Spirito
Santo nel giorno di Pentecoste
(in Atti degli Apostoli 2) apre a ulteriori riflessioni che non mancheranno di trovare spazio su queste stesse colonne.