Babele

Fascicolo: giugno 2012
Tags: BIBBIA

Il notissimo testo biblico della cosiddetta "Torre di Babele" (Genesi 11, 1-9) è tradizionalmente interpretato secondo lo schema classico dei racconti della punizione divina in risposta all'orgoglio (in greco hybris) umano. Tale schema prevede nella sua completezza la presenza di cinque elementi fondamentali: 1) un progetto che un uomo o degli uomini (o donne) elaborano per eguagliare e raggiungere la grandezza degli dèi; 2) questi si accorgono che qualcuno sta tentando di paragonarsi o arrivare a loro (e con buone probabilità di successo); 3) gli dèi mettono in atto un piano per far fallire il progetto dell'ingegno umano; 4) tale progetto inesorabilmente fallisce; 5) al fallimento segue la punizione inflitta dalla divinità. Lo storico greco Erodoto (V sec. a.C.) ha sintetizzato bene questa battaglia tra l'umanità e gli dèi, in cui questi escono sempre vittoriosi e l'orgoglio umano si deve piegare alla nemesis dell'umiliazione. «Non vedi come gli dèi schiantano sempre le case più grandi e gli alberi più alti con i loro fulmini? Certamente essi amano buttare giù qualunque cosa che si esalta. Così spesso un uomo potente è sconfitto quando gli dèi, nella loro gelosia, inviano il terrore e la tempesta dal cielo e quegli perisce in un modo altrimenti indegno. Gli dèi non permettono a nessuno di avere un'opinione troppo alta di sé» (Storie VII, 10). A dire il vero, non sempre nei racconti che l'antichità ci ha trasmesso sono presenti tutti i punti del genere letterario, come nel tentativo di Icaro di costruirsi ali capaci di arrivare all'Olimpo attraversando i cieli, o nel destino di Agamennone secondo la tragedia omonima di Eschilo.

Una interpretazione tradizionale

Genesi 11, 1-9
1 Tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole. 2 Emigrando dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono. 3 Si dissero l'un l'altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. 4 Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra». 5 Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. 6 Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un'unica lingua; questo è l'inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. 7 Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro». 8 Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. 9 Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

Nel racconto biblico, invece, sembrano essere presenti tutti gli elementi tradizionali della hybris umana sconfitta e della punizione divina in forma di nemesis.
È a partire da questo genere letterario che si sono mosse tutte le interpretazioni del nostro brano, sin dalle più antiche che trovano eco nell'opera di Giuseppe Flavio (Antiquitates 1.4.3, del I d.C.). Il dover dare ragione di un mondo che parla lingue diverse e nel quale le diverse popolazioni e culture non si comprendono avrebbe portato gli autori sacri a presentare un tale scenario (evidente a tutti) come il risultato dell'orgoglio umano che ha utilizzato male del dono di poter comunicare liberamente e con pienezza e ha pensato di poter costruire una città e una torre la cui cima tocchi il cielo e così "farsi un nome", ovvero diventare come Dio (v. 4, letto alla luce della tentazione originaria del serpente in Genesi 3, 5: Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio). Ancora più evocativo a questo riguardo diventa il collegamento del nome Babele (di per sé in ebraico derivato dalla radice che indica confondere, confusione) con la città di Babilonia, nella quale si avevano i tipici templi a gradini (le ziggurat), il più alto e imponente dei quali era stato costruito proprio negli anni della deportazione degli ebrei nel VI secolo a.C., epoca nella quale è avvenuta la redazione finale del nostro racconto. Eppure questa interpretazione, che apparentemente sembra dare ragione dei diversi snodi del testo, si scontra con molti elementi che sembrano fare resistenza allo schema "peccato di orgoglio / castigo divino".
Innanzitutto non si capisce in che cosa consista il vero peccato degli uomini. Non esiste alcun divieto di Dio nel costruire una città e una torre, e solo una lettura già condizionata dall'orizzonte interpretativo della hybris può far leggere le espressioni utilizzate dall'umanità in prospettiva negativa. Le espressioni di Dio non esprimono d'altro canto alcun riferimento all'ira o a una condanna cui debba fare seguito una pena. Dio esprime piuttosto un timore che qualche cosa di fatto avvenga, e afferma che quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile (v. 6). Per comprendere allora il perché di una tale preoccupazione che porta all'intervento di Dio, occorre allargare lo sguardo dalla semplice lettura di questi nove versetti - spesso interpretati nella loro autonomia - a quanto li aveva preceduti.

La dispersione come bene

Genesi 10 riporta, sotto la forma di genealogie dei tre figli di Noè (Sem, Cam e Iafet), una vera e propria "tavola dei popoli" che abbraccia tutto il "mondo" allora conosciuto. Avevamo già sottolineato in questa stessa rubrica (cfr «Siamo tutti fratelli?», in Aggiornamenti Sociali 4 [2010] 311-314) l'importanza dell'identità "fraterna" dell'intera umanità. La comune radice in Noè come padre dei tre fratelli capostipiti di tutte le diverse nazioni ed etnie, è tanto più importante quanto più fotografa realmente la diversità delle genti presenti sulla terra. Ma qui troviamo la prima sorpresa. Una tale diversità, infatti, era stata presentata in tutta la sua bellezza proprio come risposta al comandamento di Dio. Sia all'inizio di tutto il progetto creaturale, sia all'uscita dall'arca dopo il diluvio, Dio ripete: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra (Genesi 1, 28 e 9, 1). Per poter obbedire a tale comando, l'umanità salvata dal diluvio universale è invitata a far ripartire il progetto di Dio "moltiplicandosi" e "riempiendo la terra" (e la lista delle generazioni che partono da Sem, Cam e Iafet serve proprio a mostrare come questo avvenga). Non c'è altra possibilità di farlo se non grazie alla "dispersione" dei popoli. Ecco allora che la lista dei discendenti dei figli di Noè è segnata dal contrappunto della "dispersione": Da costoro derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni (10, 5). In seguito si dispersero le famiglie dei Cananei (10, 18). Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro genealogie, nelle rispettive nazioni. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio (10, 32).
Vale la pena sottolineare come il tema della "dispersione" sembri essere quello centrale anche nel racconto della torre di Babele. Essere dispersi è infatti il grande timore dell'umanità tutta radunata in un unico luogo in 11, 4, timore che porta a desiderare di costruire la città e la torre. D'altro canto, è l'ultima parola del nostro racconto come risultato dell'azione di Dio: li disperse su tutta la terra (11, 9). Strana "punizione" allora, quella che spinge l'umanità al bene originario della diversità e dell'abitare tutta la terra. La dispersione volutamente sottolineata nel narrare le genealogie umane del capitolo 10 si collega con l'episodio di Babele proprio nel diverso modo di concepire l'unità. Se nel capitolo 11 tale modo è descritto come un'uniformità di lingua (cioè di pretesa di uniformità culturale intesa come bene, come vedremo sotto), quello precedente mostra l'unità come una perenne meditazione della comune "fraternità". Sarà nel potersi riscoprire fratelli che la dispersione realizzerà appieno il comando divino della creazione. «La dispersione voluta da Dio è quella per cui tutta la terra verrà popolata. La dialettica di unità-dispersione non presuppone che famiglie, lingue, terre, nazioni diverse siano una realtà negativa o disubbidiente. La loro diversità è voluta, rientra nel volere di Dio. Il progetto che Dio ha in serbo per l'umanità non comporta né un'omogeneità pavida e utilitaristica, ricercata come se Dio non fosse il Signore del creato, né una dispersione delle varie parti dell'umanità, attuata come se le varie componenti dell'umanità fossero autonome e non un tutt'uno» (BRUEGGEMANN W., Genesi, Claudiana, Torino 2002, 127-128).

Una lingua, una cultura per tutti?

L'espressione che apre il racconto in 11, 1, tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole non dice solo di una uniformità linguistica, ma evoca anche quella culturale, dato che devarîm in ebraico ("parole") non è termine solo afferente alla lingua, ma copre tutta l'area semantica per "concetti, realtà (anche materiali)". E una tale uniformità culturale è stata propagandata come necessaria e buona nel mondo "occidentale", forse per la prima volta proprio dall'impero babilonese del VII-V sec. a.C., che ha distrutto Gerusalemme e deportato tutto il regno di Giuda. Lo stesso farà poi Alessandro Magno e la cultura greco-macedone ellenistica e, da quel momento, ogni potenza dominatrice tenterà lo stesso processo. Così il racconto del desiderio espresso dalle parole: Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, di 11, 4, può senz'altro essere considerato come il desiderio di ogni totalitarismo e di ogni imperialismo. C'è quindi una stretta equivalenza tra il desiderio di una città e di una torre che tocchi il cielo, il desiderio di immortalità (l'espressione "farsi un nome" secondo la maggioranza degli studiosi evoca proprio il desiderio di immortalità, cfr 2Samuele 18, 18) e l'anelito all'uniformità culturale.
Da quei tempi antichi fino alle grandi dittature che hanno caratterizzato la storia dei giorni nostri, il delirio del dominio umano ha sempre imposto anche uniformità di cultura, costume, morale, "teologia" e pensiero. "Pensiero unico" che regoli ogni pensiero individuo; solo quelle uniche parole possono allora essere dette, prodotte e pensate. Anche «la religione può fornire questo tipo di unità e sanzionare l'oppressione sociale. Dunque, in un contesto siffatto la torre potrebbe benissimo partecipare del "religioso" e assurgere a simbolo di unità. Il nostro testo potrebbe anche essere una critica dei tentativi religiosi di reprimere il pluralismo. Oppure potrebbe cercare di costruire una "copertura sacra" che consolidi la libertà umana» (BRUEGGEMANN W., Genesi, cit. 129).
Lo stesso può valere oggi nella tentazione dell'esportazione forzata di un unico modello di democrazia, considerato quello "buono", o della logica globalizzata del mercato. Giovanni Paolo II nel 2001 affermava: «La globalizzazione è divenuta rapidamente un fenomeno culturale. Il mercato come meccanismo di scambio è divenuto lo strumento di una nuova cultura. Molti osservatori hanno colto il carattere intrusivo, perfino invasivo, della logica di mercato, che riduce sempre più l'area disponibile alla comunità umana per l'azione pubblica e volontaria a ogni livello. Il mercato impone il suo modo di pensare e di agire e imprime sul comportamento la sua scala di valori. Le persone che ne sono soggette spesso considerano la globalizzazione come un'inondazione distruttiva che minaccia le norme sociali che le hanno tutelate e i punti di riferimento culturali che hanno dato loro un orientamento di vita. [...] La globalizzazione non deve essere un nuovo tipo di colonialismo. Deve rispettare la diversità delle culture che, nell'ambito dell'armonia universale dei popoli, sono le chiavi interpretative della vita. In particolare, non deve privare i poveri di ciò che resta loro di più prezioso, incluse le credenze e le pratiche religiose, poiché convinzioni religiose autentiche sono la manifestazione più chiara della libertà umana» (discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001).
Se così fosse, Genesi 11, 1-9 rappresenta una feroce critica di ogni anelito umano ad appiattire differenze e diversità, nell'imposizione del "pensiero unico" per farsi un nome. Si può senz'altro dire che «abbiamo un paradigma, una parabola, che ha le sue radici in alcune esperienze storiche. Tuttavia il messaggio è più universale. Il racconto della torre di Babele non è un oracolo contro Babilonia, impartisce una lezione universale, che vale per ogni tempo e ogni popolo: il destino dell'umanità non è una ricerca chimerica dell'immortalità. È nell'avventura della storia, nella diversificazione delle culture e nella disseminazione delle nazioni su tutta la superficie della terra. Non si può più parlare dell'unità dell'umanità allora? Forse sarebbe meglio parlare non di unità, ma di cooperazione; non di unificazione, ma di armonia; non di uniformità, ma di concordia. Non possiamo sognare un linguaggio unico per tutta l'umanità» (SKA J. L., «Né castigo né satira: il mondo dopo Babele», in Vita e Pensiero, 4 [2011] 100-101).

Dispersione e diversità: un impegno

Dicevamo che il racconto di Babele è costruito "come se" il risultato finale fosse proposto a noi come un "castigo" divino per il peccato dell'umanità. La situazione che chiunque ha davanti agli occhi (un'umanità dispersa in una moltitudine di popoli diversi e non più capace di comprendersi date le molte lingue e le molte parole-culture) sarebbe così da interpretarsi come un "male" contrapposto al "bene" originario di una presunta unica umanità concentrata in un unico luogo e con un'unica lingua e cultura. Abbiamo però anche visto, dalla lettura del capitolo precedente di Genesi, come tale lettura non possa essere accolta a rischio di trovarci dinanzi a due testi contrastanti. Sant'Agostino proponeva di leggere Genesi 11 come cronologicamente precedente Genesi 10 per risolvere il problema, ma non è difficile comprendere l'intento didattico dell'autore biblico se si pone sufficiente attenzione al valore narrativo dei testi dei primi capitoli di Genesi che, da un lato, vogliono spiegare le motivazioni profonde per cui l'umanità si trova nella condizione che si percepisce al presente (sarebbe questo il valore eziologico dei testi), ma, dall'altro, vogliono anche essere una road map per permettere all'umanità di trovare la via per l'obbedienza al desiderio di Dio per il suo benessere e la sua felicità.
Se è da sempre compito difficile e problematico per l'umanità fare i conti con la varietà dei popoli e con la difficoltà delle diverse parole con cui si può dire l'esperienza umana - che è la caratteristica delle differenti culture -, la soluzione non può essere il semplice annullamento delle differenze per costruire "una sola città" che voglia arrivare a essere immortale e onnicomprensiva. Il cammino che il testo propone apre la strada, invece, alla possibilità del riconoscimento dei diversi come "fratelli e sorelle", figlie e figli tutti dell'unico padre che non è Abramo (l'identità etnica e religiosa nel monoteismo storico), ma Noè (il giusto con cui viene stipulata l'alleanza eterna di Dio nei confronti di tutta l'umanità, cfr Genesi 9). Il testo biblico propone cioè sia una pista di autocomprensione del popolo di Israele nei confronti del resto dell'umanità ("tutti i popoli sono tuoi fratelli anche se non condividono con te la fede nel Signore Dio"), sia una modalità di possibili relazioni ("per non farsi guerra occorre comprendersi anche se si hanno diverse lingue e diverse parole"). Il fatto che il Nuovo Testamento vedrà questo processo possibile solo grazie all'intervento dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste (in Atti degli Apostoli 2) apre a ulteriori riflessioni che non mancheranno di trovare spazio su queste stesse colonne.
 

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