Atlantique

di Mati Diop
Cinekap, Frakas Production, Les Films du Bal, Senegal, Francia, Belgio 2019
Scheda di: 
Fascicolo: novembre 2020

Lo sguardo si apre su una Dakar polverosa e asfissiante. Al margine di una scogliera a picco sul mare svetta un grattacielo immenso in costruzione. Un gruppo di muratori, fuori dal cantiere, sta protestando per non aver ricevuto lo stipendio degli ultimi tre mesi. Con un taglio netto, si passa a una lunga carrellata sull’oceano Atlantico, le cui molteplici onde sembrano richiamare la natura fluida e corale della narrazione di Atlantique, primo lungometraggio della regista Mati Diop che, ritornando al Paese del padre, sfida lo spettatore a un racconto complesso e non convenzionale.

Al centro della vicenda c’è Ada, una ragazza di 17 anni promessa in sposa al ricco Omar, un imprenditore che vive la maggior parte del tempo in Italia; la giovane è però innamorata di Souleiman, uno dei muratori rimasti senza lavoro e senza stipendio. La storia sembrerebbe un comune dramma sullo sfondo di una delle nuove grandi metropoli del continente africano ma, quando per la delusione amorosa e lavorativa Souleiman decide di prendere il mare con i suoi compagni per provare a raggiungere la Spagna, il film ha una svolta inaspettata. Un incendio, scoppiato senza una causa evidente, lascia un cerchio di cenere sul letto coniugale di Ada e Omar, impedendo che si possano consumare le nozze, mentre le mogli e le compagne dei giovani imbarcatisi – che si scoprirà che sono morti in mare – vengono prese da una misteriosa febbre che si placa solo di notte quando, come possedute da spiriti, vagano per la città in cerca di giustizia. Tra metafora politica e thriller paranormale, Atlantique prova così ad aprire una strada nuova per raccontare la tragedia di una generazione che dal Senegal si sposta verso l’Europa.

Il tema della migrazione negli ultimi vent’anni è stato generalmente raccontato secondo due costanti: da un punto di vista maschile e con uno stile fortemente realista. La settima arte sembra aver composto numerosissime variazioni sullo stesso tema narrativo: un protagonista maschile permette di proiettare sulla terra d’arrivo i connotati femminili del desiderio. Dal giovane iracheno Bilal – protagonista di Welcome (2008) di Philippe Lioret – ai due bambini guatemaltechi Juan e Samuel de La Jaula de Oro di Diego Quemada-Diez (2013), la pulsione a ricongiungersi con una donna, che sia madre o fidanzata, è il motore per sviluppare il racconto sulla migrazione, che si trasforma in narrazione epica o tragica del desiderio di quel ricongiungimento. Pochissime sono le eccezioni a questo schema – fra queste, Terraferma di Emmanuele Crialese o Io Sono Li di Andrea Segre – che hanno cercato altre strade e altre soluzioni.

Mati Diop – premiata a Cannes con il Gran Premio della Giuria – ha dichiarato fin da subito di voler affrontare la tematica da un’altra prospettiva: «L’idea era di scrivere una storia di fantasmi su una generazione morta in mare. L’onnipresenza della loro assenza. Le ragazze di un quartiere vengono lasciate indietro e sono perseguitate dagli spiriti di questi ragazzi perduti. Volevo che il film creasse un luogo dove questi spiriti trovassero rifugio: chiedere giustizia, per ottenere i soldi che gli sono dovuti; per fare l’amore con la loro amata un’ultima volta. È un argomento nuovissimo, nato dal fatto che comunemente si parla di persone “illegali” quando lasciano il Paese in cui sono nate. È essenziale che il cinema e la letteratura rendano gli oppressi non solo visibili, ma davvero incarnati» (cfr l’intervista rilasciata dalla regista a Vogue, in <www.vogue.co.uk/arts-and-lifestyle/article/mati-diop-interview>).

Questa prospettiva di lettura del film ci porta ad accostare Atlantique alla tradizione postcoloniale del realismo magico, genere letterario nato in America latina tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso e poi passato in Africa negli anni ’70, che si costituisce come una sintesi tra due differenti tensioni della letteratura novecentesca: la dimensione magica del genere fantastico e il realismo che domina le narrazioni sociali. In questo modo pone al centro il confronto con il passato coloniale, dando una forma fantastica all’orizzonte politico, così come le invenzioni fantastiche di Cento anni di solitudine di García Márquez erano funzionali al racconto della predazione statunitense della campagna colombiana. In sintonia con tale poetica, Mati Diop mescola immagini di un Senegal futuro, come la fantascientifica torre che svetta sulla città, con elementi del folklore di un passato spiritista. In Atlantique si supera così la logica di un finale tanto tragico quanto prevedibile – perché nella realtà del Senegal attuale è impossibile smarcarsi dalla tragedia – attraverso l’elemento paranormale: i morti ritornano dal mare sotto forma di spiriti e possono ottenere giustizia.

La seconda rivoluzione, rispetto al tema delle migrazioni, è lo spostamento dell’obiettivo, posato non più sull’uomo che viaggia, ma sulla donna che rimane nel Paese di origine. In questo senso Atlantique entra in relazione diretta con l’opera forse più importante della storia del cinema senegalese, Touki Bouki (1973) del regista Djibril Diop Mambéty, zio paterno della Diop, che negli anni ’70 mescolava elementi del tribalismo con la contemporaneità raccontando la storia di due innamorati separati dalla partenza della donna verso la Francia. Mati Diop sposta il punto di vista, dedicando il proprio sguardo non al viaggio e nemmeno all’arrivo bensì al punto di partenza. Non diventa quindi casuale il ribaltamento maschile-femminile. La possessione spiritica si fa così perfetta metafora per raccontare la separazione lacerante e l’impossibilità di un ricongiungimento: le donne vivono coscientemente di giorno e gli uomini prendono possesso dei loro corpi durante la notte.

La fotografia di Claire Mathon cerca di offrire, attraverso una messa in scena molto coerente, un contraltare estetico alla condizione dei propri protagonisti. Al registro diurno, dominato dagli arancioni delle costruzioni e della sabbia, si alterna una gamma di blu scuri della notte in cui si presenta l’uso ricorrente di luci al neon e flash. La dicotomia dei due colori complementari – che normalmente vengono usati insieme per dare equilibrio cromatico all’inquadratura – viene rotta dalle scelte estetiche di regia che amplificano così la separazione degli opposti (giorno-notte, femminile-maschile) e permettono allo spettatore di entrare in risonanza con la condizione narrata. Da ultimo, la colonna sonora di Fatima Al Qadiri gioca con le immagini mescolando musiche tribali ed elettronica contemporanea, lavorando, nei momenti più soprannaturali, sul tessuto ritmico e generando un’atmosfera profondamente perturbante.

Al di là delle scelte registiche coerenti e di una profonda rivoluzione nei presupposti narrativi, Atlantique può risultare un film estremamente difficile da affrontare. La prima parte, in cui dominano i tempi lenti di quello che viene definito “cinema contemplativo”, non lo rende di facile accesso allo spettatore comune, mentre gli elementi orrorifici e fantastici obbligano poi a una certa predisposizione all’inaspettato. La scelta – visiva prima di tutto – di mostrare i migranti come degli spiriti che trasformano le donne amate in zombie, è sicuramente di forte impatto emotivo e chiama lo spettatore a prendere posizione. La mostruosità degli spiriti sembra quasi riecheggiare i versi di Profezia di Pier Paolo Pasolini – «Usciranno da sotto la terra per uccidere / usciranno dal fondo del mare per aggredire» – che proprio mezzo secolo fa sembrava anticipare i grandi flussi migratori dall’Africa.

L’uso di un registro terrorifico richiama una delle possibili etimologie della parola osceno, legata al gergo teatrale: l’essere “fuori dalla scena”, non partecipe allo spettacolo; attraverso elementi horror (genere osceno per antonomasia) Atlantique vuole riportare “in scena” coloro che ne sono stati strappati. Nei media e nel cinema contemporaneo, di solito le storie che vengono raccontate sono quelle dei migranti che riescono ad arrivare alle coste, il destino di coloro che scompaiono in mare è invece quello di essere trasformato in un numero. Mati Diop, attraverso la sua macchina da presa, restituisce così al palcoscenico della vita l’immagine di Souleiman e degli altri uomini naufragati nell’oceano. Può sottrarli, anche solo per poche notti, all’oblio. Il cinema, sembra suggerirci Atlantique, ha ancora questa capacità di rompere la logica della realtà e ridare vita ai morti, giustizia agli oppressi, amore a chi viene abbandonato. In questa “magia” della messa in scena è contenuta tutta la poetica di un film complesso e ambizioso che sicuramente aprirà il cammino a una nuova generazione di autori e a nuovi paradigmi cinematografici.

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