La trama del film
L’atterraggio di un misterioso oggetto proveniente dallo spazio
sul nostro pianeta è al centro delle investigazioni di una squadra di
élite, capitanata dall’esperta linguista Louise Banks (Amy Adams).
Mentre l’umanità si trova sull’orlo di una guerra globale, Banks col suo
gruppo affronta una corsa contro il tempo in cerca di risposte, e per
trovarle farà una scelta che metterà a repentaglio la sua vita e, forse,
anche quella del resto della razza umana.
Arrival segna l’approdo del regista canadese Denis Villeneuve al genere fantascientifico, in seguito a un percorso caratterizzato da forti ambizioni autoriali e da incursioni nel cinema di genere, e si presenta come un film decisivo per la sua carriera, forse il più audace, dal momento che intende coniugare la profondità della fantascienza più concettuale – si pensi, ad esempio, a 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e a Solaris di Andrej Tarkovskij – con la spettacolarità del blockbuster hollywoodiano. Una prova importante, dunque, che precede un’altra ardua impresa: quella di realizzare il seguito di Blade Runner, pietra miliare della storia del cinema.
Presentato in concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia e in uscita nelle sale italiane il prossimo 12 gennaio, Arrival si basa su un vero e proprio topos del genere fantascientifico, l’arrivo degli alieni nel nostro mondo, ma la narrazione si affranca da tanti cliché ricorrenti in questo tipo di film e affronta il tema dell’incontro con l’estraneo indagando il ruolo del linguaggio. Quando le creature atterrano sulla Terra a bordo di enormi astronavi simili a monoliti (un chiaro omaggio a 2001: Odissea nello spazio), il Governo statunitense, in collaborazione con gli altri Paesi del globo, cerca di comprendere le loro intenzioni. La linguista di fama mondiale Louise Banks viene incaricata di studiare il linguaggio degli “eptapodi” (così chiamati per via delle loro sette zampe), e in particolare la loro scrittura: i visitatori alieni usano infatti un complesso sistema caratterizzato da simboli circolari, del tutto slegati dalla lingua parlata. Il lavoro diventa per Louise sempre più coinvolgente dal punto di vista intellettuale ed emotivo, dal momento che il contatto con gli alieni la aiuta a rielaborare i ricordi della figlia scomparsa in tenera età.
Il cinema dell’ultimo ventennio ci ha posto spesso di fronte all’ipotesi di un’invasione aliena. Il tono prevalente dei film di questo tipo – da Independence Day (Roland Emmerich, 1996) a La guerra dei mondi (Steven Spielberg, 2005) – è epico, con un eroe incaricato di salvare la Terra dalla presenza estranea, vista inequivocabilmente come una minaccia. Il primo elemento di difformità di Arrival rispetto a questo modello risiede proprio nelle caratteristiche dell’eroe che entra in contatto con gli alieni: non un guerriero o uno stratega, bensì una linguista, interpretata in maniera convincente da Amy Adams (per cui già si mormora una candidatura ai prossimi Oscar). Uno dei personaggi spiega il motivo di questa scelta così controcorrente: «Il linguaggio è la prima arma usata in un conflitto». Villeneuve intende infatti indagare non solo le potenzialità del linguaggio, ma soprattutto la sua ambivalenza. Esso infatti non rappresenta semplicemente un ponte tra culture diverse, ma è allo stesso tempo mezzo di divisione, strumento bellico e chiave per lo scioglimento del conflitto: sta a noi decidere come utilizzarlo, ma in ogni caso il suo ruolo resta decisivo.
Per questa problematica ambiguità Louise sceglie di procedere con estrema lentezza durante gli incontri con gli alieni: le suggestive scene che li descrivono, e che rappresentano i momenti più visionari di Arrival, si basano sulla presenza di una sottile lastra di vetro che separa la linguista dagli eptapodi. L’atmosfera è sospesa, carica di fascino e tensione, come se da un momento all’altro l’armonia potesse incresparsi, come se la barriera rischiasse di frantumarsi lasciando alle creature la possibilità tanto di un abbraccio quanto di un’aggressione. Per lo stesso motivo Louise studia il linguaggio nel suo significato più universale: non tanto come “discorso” (il lógos dei greci), bensì come “evento”, come atto performativo (l’ebraico dabàr). Nella Bibbia, il dabàr non corrisponde semplicemente alla parola emessa, ma è una parola-atto, una parola che, nello stesso momento in cui è pronunciata, crea. Il Giardino dell’Eden è il simbolo di questa comunione tra Dio e il creato, resa possibile dalla parola. Louise sembra avere in mente questo, quando si approssima ai visitatori: è determinata a non infrangere le regole per non rovinare questa condizione idilliaca di vicinanza che la parola ha creato. La donna cerca quindi di sondare quanto il linguaggio umano e quello alieno siano affini e quanto differiscano nell’interpretazione di concetti essenziali. Solo dopo questo lungo processo Louise potrà arrivare a porre la domanda per la quale è stata inviata nell’astronave: «Che intenzioni avete? Qual è il vostro scopo sulla Terra?».
Mentre tenta di comunicare con loro, la protagonista capisce che gli alieni non usano un’ortografia lineare. La loro lingua scritta è, infatti, circolare e non sembra procedere secondo una direzione che parta dalla causa per giungere all’effetto. È qui che Arrival si ricollega a una teoria specifica, l’ipotesi della relatività linguistica, o ipotesi di Sapir-Whorf, secondo la quale lo sviluppo cognitivo di ogni essere umano è influenzato dalla propria lingua. Questo significa che la nostra visione del mondo e il nostro modo di pensare – dando credito all’interpretazione più radicale di questa teoria – sono determinati dalla maniera in cui ci esprimiamo, dalla lingua che parliamo quotidianamente. Il film assume questa idea fino alle sue estreme conseguenze: apprendere una nuova lingua significa imparare a ragionare secondo schemi differenti.
La storia personale di Louise, che costantemente si intreccia alle sessioni di traduzione del linguaggio alieno, indica che questa “contaminazione” linguistica può avere effetti positivi, aiutando a leggere il proprio vissuto personale in maniera costruttiva e inclusiva (come suggerisce anche la circolarità dei simboli). Grazie a questo passaggio, Arrival si rivela una metafora interessante e proficua degli attuali movimenti migratori verso l’Europa. Il film suggerisce infatti come l’arrivo di stranieri su un territorio possa tradursi in un ampliamento di prospettiva e in una crescita per i popoli ospitanti. L’elemento di originalità del film sta nell’individuare proprio nella lingua lo strumento di tale crescita. Essa non è semplicemente un veicolo di comunicazione, è soprattutto un terreno concettuale che si può coabitare, sul quale si possono costruire le basi per una convivenza effettiva. E, d’altra parte, il confronto coraggioso con l’ignoto emerge come una condizione indispensabile per l’emancipazione non solo di Louise, ma dell’intera specie umana.
Villeneuve non si limita a sondare la relazione con lo straniero dal punto di vista linguistico, ma cerca di indagare altri campi dell’esperienza umana, come la memoria, la forza d’animo e, soprattutto, l’amore. Arrival si apre infatti con una sequenza girata in maniera dissonante rispetto al resto del film: una serie di frammenti sulla breve esistenza della figlia di Louise, Hannah, che ha perso la vita per una rara malattia. Mentre l’intreccio sugli alieni è girato secondo i canoni più classici del genere fantascientifico, questa prima parte e i successivi flashback sulla storia privata di Louise sono caratterizzati da uno stile fortemente lirico ed emotivo, che ricorda da vicino le scene familiari di The Tree of Life (2011) di Terrence Malick. Arrival è infatti un ambizioso congegno nel quale la dimensione universale del destino della Terra si intreccia alla dimensione intimista della tragedia che ha segnato la vita di Louise. Un colpo di scena – del quale non possiamo rivelare di più, pena lo svelamento di alcuni snodi importanti del racconto – imprime una svolta decisiva alla sceneggiatura di Eric Heisserer (basata sul racconto Story of Your Life di Ted Chiang) tanto che, sia nella storia narrata sia nella struttura del film, il passato e il futuro si scambiano improvvisamente di posto. Louise – imparando dalla circolarità del linguaggio degli extraterrestri – inizia a “vedere” il proprio futuro. A questo punto, per lo spettatore non è tanto importante chiedersi come la protagonista possa convivere con la consapevolezza del proprio avvenire, bensì constatare come questo viaggio interiore nel tempo conduca Louise a una serena e coraggiosa accettazione di ciò che la vita ha in serbo per lei.
Benché il racconto, per addentrarsi in questioni antropologiche ed esistenziali di tale profondità, sia costretto a ricorrere a semplificazioni, non si può tuttavia sottovalutare l’intensità con cui Arrival prova a parlarci del nostro presente, invitandoci a non temere il futuro. Il sentiero di immagini tracciato da Villeneuve conduce da un lato a una profonda presa di coscienza dei nostri limiti di esseri umani, dall’altro a una fiducia nelle potenzialità dell’uomo, che si realizzano nell’incontro con l’altro. E, tramite la sua bellissima metafora linguistica, ricorda l’importanza di parole come “condivisione” e “comunicazione” per la salvezza umana.
Il regista
Dopo i film diretti in Québec tra gli anni Novanta e Duemila, destinati al circuito d’essai, come
Maelström (2000) e
La donna che canta (
Incendies) (2010), Denis Villeneuve ha fatto il suo ingresso a Hollywood girando alcuni thriller di successo, come
Prisoners (2013) e
Sicario (2015).