“Antropocene” è un termine usato per indicare una (ancora ipotetica) epoca geologica che sarebbe da poco iniziata a causa del poderoso impatto delle attività umane sul nostro pianeta. Questo concetto, apparso per la prima volta negli anni ’70 ma venuto alla ribalta nel 2000, grazie al libro Benvenuti nell’Antropocene del premio Nobel per la chimica Paul Crutzen, è oggetto di studio dal 2009 da parte del Gruppo di lavoro sull’Antropocene (AWG), un team di trentasette scienziati facenti parte della Commissione internazionale di stratigrafia (ICS).
Il loro compito è cercare prove del fatto che l’estrazione mineraria, l’industrializzazione, l’urbanizzazione, l’agricoltura e le altre attività umane, avendo causato negli ultimi due secoli profonde perturbazioni nei cicli del carbonio, dell’azoto e del fosforo, stiano trasformando la struttura stessa della crosta terrestre e abbiano dato inizio a una nuova epoca geologica.
I registi e fotografi Burtynsky, Baichwal e de Pencier, affascinati dal lavoro di questa commissione di scienziati e ormai abituati a lavorare insieme per documentare gli effetti dell’azione umana sulla natura (Manufactured Landscapes, 2006; Watermark, 2013), hanno raccontato di essersi ritrovati nel 2014 e di essersi chiesti in che modo fosse possibile «far diventare “Antropocene” una parola di uso quotidiano» (Anthropocene, Goose Lane Editions, Fredricton [CAN] 2019, p. 13). A distanza di quattro anni da questa prima conversazione è nato un progetto a dir poco monumentale, sostenuto da una collaborazione tra la Art Gallery of Ontario, la National Gallery of Canada e la Fondazione MAST di Bologna.
Sono stati realizzati una mostra fotografica, un documentario e ben due pubblicazioni per raccontare la potenza dell’impatto della società globalizzata sulla natura. La filosofia che sta dietro al progetto è chiara: gli artisti vogliono che lo spettatore partecipi attivamente all’indagine sull’Antropocene; che si senta coinvolto dalla forza delle immagini almeno tanto quanto la società umana lo è nella trasformazione del pianeta; che si interroghi sul significato di quello che vede, esplorando in modo interattivo ogni angolo della mostra (ospitata al MAST di Bologna fino al 5 gennaio 2020 e visitabile gratuitamente).
Muniti di droni e di strumenti di ripresa di ultima generazione, i tre artisti si spingono in alcuni dei luoghi più contraddittori della Terra. Fra questi l’immensa discarica di Dandora a Nairobi (Kenya), che conta 2mila nuove tonnellate di rifiuti ogni giorno; la bidonville di Makoko a Lagos (Nigeria), costantemente soggetta a inondazioni; il deserto di Atacama in Cile, con le sue colorate piscine per l’estrazione del litio; le miniere di fosfato della Florida e quelle di potassio di Berezniki (Russia), che hanno reso il paesaggio naturale irriconoscibile; la città più inquinata della Russia, Norilsk, con il suo festival della metallurgia; le imponenti miniere di marmo a cielo aperto di Carrara e molte altre località.
La bellezza e la nitidezza delle immagini, frutto dell’utilizzo di una tecnologia che è (consapevolmente) il prodotto stesso dell’Antropocene, contrastano con la brutalità e la violenza che vediamo esercitare da parte delle macchine, sinistre protagoniste del documentario, sulla terra, sulle foreste, sui mari e sulle specie viventi.
Alcune parole dal suono duro e a volte poco familiare introducono, come se fossero i capitoli di un libro, le diverse arie di questa sinfonia di immagini: estrazione, terraformazione, antrotubazione, estinzione, tecnofossili… La voce pacata e decisa di Alicia Vikander narra il significato di questi nuovi fenomeni antropogenici che sembrano trascendere il senso che siamo soliti attribuire alla coppia concettuale causa-effetto. Si tratta infatti di azioni che mutano così profondamente la conformazione del sottosuolo, dell’atmosfera e dei rapporti fra i viventi, che dal punto di vista ecologico ogni effetto si trasforma nella causa scatenante di mille altri imprevedibili eventi naturali e sociali, i quali si influenzano e si intrecciano a vicenda in un ciclo senza fine.
Così, la scala con la quale valutare le ripercussioni della società globalizzata sul pianeta pare all’improvviso espandersi al di là della nostra immaginazione, assumendo proporzioni, appunto, geologiche. Le materie plastiche, le scorie radioattive, il cemento e le leghe metalliche che riversiamo ogni giorno a tonnellate sulla superficie terrestre si sedimentano dando vita a un nuovo strato della crosta terrestre, che per millenni porterà l’impronta dell’uomo. Proprio noi, una fra le tante specie viventi – sembrano voler dirci Burtynsky, Baichwal e de Pencier – siamo diventati una forza al pari dei movimenti tellurici e delle grandi glaciazioni del passato. Forse, abbiamo dato inizio a una nuova epoca.
Questa narrazione è, senza dubbio, epica e affascinante; non bisogna però dimenticare che sono ancora molti quelli che criticano con importanti argomenti il concetto stesso di Antropocene.
Alcuni studiosi affermano infatti che, in confronto all’eccezionale durata dei tempi geologici, cui ci si riferisce solitamente con l’espressione inglese deep time (tempo profondo, perché contempla unità di misura che possono essere anche dell’ordine di decine di milioni di anni), il passaggio dell’uomo sulla Terra e le sue conseguenze potrebbero apparire comunque a eventuali geologi del futuro come una breve parentesi tra un’epoca e un’altra.
Altri sostengono che dare a un’epoca geologica il proprio nome costituisca un non trascurabile atto di hybris, data la brevità della permanenza umana sulla Terra in confronto all’età del pianeta, e non faccia altro che riaffermare l’antropocentrismo arrogante che ne ha causato la devastazione.
Tuttavia, nonostante le critiche, non si può più negare che dal punto di vista scientifico l’accelerazione dei mutamenti che interessano tanto il clima quanto la biodiversità o la crosta terrestre siano anche e soprattutto frutto della pressione antropica. È come se gli esseri umani avessero tolto i freni a un’automobile che percorre un pendio in discesa, la quale senza il nostro intervento non avrebbe variato la sua velocità ancora per molte migliaia di anni, mentre oggi sembra impazzita.
Se prendiamo come punto di riferimento anche solo il periodo geologico più recente, l’Olocene, iniziato circa undicimila anni fa e dentro il quale noi ancora viviamo, è evidente che gli ultimi due secoli rappresentano qualcosa di radicalmente inedito rispetto a quelli passati. L’esperienza che noi stessi facciamo del mondo non è più quella delle comunità umane di un tempo. Le molteplici mediazioni tecnologiche che utilizziamo quotidianamente ci danno la percezione di essere alienati dalla natura.
Come mostra il film, rischiamo di ammirare la bellezza delicata di un’opera d’arte quale il David di Michelangelo senza ricordare che centinaia di macchine hanno letteralmente sventrato una montagna e lottato contro enormi blocchi di marmo, devastando chilometri di paesaggio, per rendere quella bellezza fruibile in infinite copie prodotte in serie.
Rimaniamo a bocca aperta di fronte alla strepitosa immagine di una barca che naviga in un’enorme lago giallo e azzurro, al centro del deserto di Atacama, per poi scoprire che questo sogno a occhi aperti non è altro che la routinaria procedura necessaria a estrarre dal sottosuolo il litio che serve per le batterie dei nostri smartphone.
Compriamo piccoli souvenir di avorio rimanendo ignari della quantità di elefanti che sono stati abbattuti per rubare loro questo prezioso materiale. O per converso (come dimostra argutamente il documentario in una delle sue sequenze più raffinate) ci indigniamo nel vedere alcuni intagliatori di avorio all’opera su lunghe zanne, per poi accorgerci che esse non provengono affatto dagli elefanti, ma da decisamente più sostenibili carcasse di mammut estinti dopo l’ultima glaciazione e ancora conservati a nord del circolo polare artico. I tre artisti ci mostrano così che nel bene e nel male non tutto è ciò che sembra, e che dovremmo riscoprire l’abitudine del domandare.
Antropocene ci racconta attraverso un’estetica quasi astrattista, un brillante gioco di allusioni e una buona dose di spettacolarità la novità di un’epoca in cui gli scopi, i mezzi e gli esiti delle nostre azioni hanno ormai il potere di plasmare il futuro prossimo non solo dell’umanità, ma dell’intero ecosistema Terra. Messi di fronte a fotografie stranianti e talora incomprensibili di ciò che tuttavia sappiamo essere il fondamento del nostro stile di vita e della nostra società, come spettatori siamo chiamati a interrogarci di volta in volta su quale sia il significato di ciò che vediamo sullo schermo. E su che cosa ci disturbi di più.
Da un lato c’è la violenza paurosa del fuoco con cui si apre il film, che in Kenya nel 2016 ha consumato la più grande e preziosa quantità di avorio mai bruciata, per protestare pubblicamente contro l’estinzione di massa della vita selvaggia causata dai bracconieri. Dall’altro c’è la calma rassegnazione delle operaie delle fucine di Norilsk e dei minatori di potassio, i quali sono privati della vista del colore del cielo a causa dell’inquinamento, ma si dicono comunque soddisfatti di fare la propria parte per “far girare” l’economia e dare lustro al nome del proprio Paese.
Oppure, c’è l’allegria di Shakur, rapper di strada, il quale improvvisa una canzone davanti alla telecamera e poi “si firma”, orgoglioso: «io sono Shakur dalla discarica di Dandora». E noi, pur sapendo che si tratta di un quartiere di Nairobi e che sarebbe quindi più corretto dire: «Sono Shakur da Nairobi», non riusciamo a non pensare che quello che Shakur intende è che quella discarica è proprio il luogo dove lui vive, lavora, dorme e canta.