Anime nere

di Francesco Munzi
Good Films Italia-Francia 2014 Drammatico Durata: 103 min.
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2015
Anime nere è la storia di quattro personaggi legati in vari modi al mondo della ‘ndrangheta e strettamente imparentati tra loro: Luigi, trafficante internazionale di droga, Rocco, imprenditore edile pronto a riciclare il denaro sporco, Luciano, pastore per conto del suo clan sono infatti fratelli, mentre Leo è il figlio di Luciano. Il film si apre con una situazione estremamente propizia per il clan Carbone, di cui fanno parte i tre fratelli, con Luigi alla guida degli affari, intento a stipulare importanti accordi internazionali. La scintilla che mette in moto la trama sembra un semplice atto di teppismo: il giovane Leo spara all’inferriata di un bar protetto dal clan rivale, un gesto che in realtà scoperchia il vaso di Pandora di una storia più antica, in cui era coinvolta la generazione precedente a quella dei suoi genitori. L’atto intimidatorio – per certi versi una “ragazzata”, come viene definita all’inizio del film – riapre una guerra tra famiglie iniziata con il padre dei tre fratelli e che porterà alla distruzione della famiglia Carbone.

Alla luce di questo breve sguardo d’insieme, Anime nere sembrerebbe una semplice storia di genere, la classica vendetta tra clan, una rilettura della recente storia criminale italiana (in questo caso parzialmente inventata) sulla scia del successo televisivo di serie come Gomorra o Romanzo criminale. Eppure nell’adattare l’omonimo romanzo di Gioacchino Criaco (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010) – il regista, Francesco Munzi, decide di operare con estrema umiltà, evitando sensazionalismi inutili, privilegiando il lavoro sul territorio con attori non professionisti, affiancati a interpreti di rilievo, portando il film più nei territori del documentario che non del cinema di finzione. In tal senso, una delle più grandi ambizioni del film è quella di trovare una strada nuova per raccontare la criminalità italiana.

Punto di partenza del film – in uno spiazzamento efficace rispetto alle aspettative dello spettatore – non è la Calabria aspromontina, luogo elettivo e nativo della criminalità organizzata, ma la cosmopolita città di Amsterdam, dove – in un dialogo in cui si alternano inglese e spagnolo – un narcotrafficante messicano e Luigi suggellano un patto di affari che sembra più economico che criminale. Lo spettatore, prima ancora di conoscere i personaggi del film, si trova così a seguire quel fiume di denaro e affari sporchi che, passando per la Milano dell’Expo e delle grandi opere d’edilizia, parte da Amsterdam e arriva ad Africo, paese di tremila abitanti nella provincia di Reggio Calabria, terra d’origine dei Carbone.

Sul piano cinematografico, Francesco Munzi decide di lavorare per sottrazione, con uno stile estremamente asciutto, ricorrendo al montaggio secco, che offre allo spettatore un ritratto quasi documentario dei territori dell’Aspromonte, soffermandosi sulle condizioni di vita, sulle tradizioni, i culti e i riti di un mondo arcaico e ferale. A stupire è l’immagine di una terra fuori dal tempo, rosa dalla globalizzazione del crimine, ma al contempo ancorata ad antichi codici di condotta, dove per una lite tra pastori può esplodere una guerra mortale. A essere raccontato, quindi, prima dell’epopea familiare dei Carbone, è il mondo della Calabria più profonda, di Africo, che i complessi codici sociali – ed è molto importante l’uso del dialetto nel rendere questo effetto di straniamento – rendono un vero e proprio mondo a parte. Così ne parla il regista, in un’intervista rilasciata a Repubblica il 17 settembre scorso: «Quella descritta è una dimensione sociale che è diventata di fatto un insieme di gabbie. Nel film diventa una gabbia il clan, i rapporti di affari e i legami familiari. È una gabbia persino la quotidianità. Gabbie nelle quali si consumano le vite e le solitudini sia individuali che collettive. In molti casi non sono neppure gabbie imposte, ma che in quel luogo ognuno ha costruito attorno a sé in maniera quasi inconsapevole. Pareti fatte da regole non scritte che diventano consuetudini. Persino i personaggi positivi come Luciano ne restano schiacciati non riuscendo a trovare una via d’uscita».

Il film coniuga così un ritratto antropologico e documentaristico che tende a rendere allo spettatore l’immagine di un mondo impenetrabile, fatto di codici, linguaggi e riti molto distanti da quelli comuni, dove Africo diventa metafora di uno Stato al di fuori dello Stato, di un mondo-’ndrangheta lontanissimo dalla vita dello stesso spettatore. Ma se nella prima parte, in cui prevale la chiave documentaristica, seppur con chiari inserti narrativi, dominano i paesaggi plumbei dell’Aspromonte, il ritratto della vita agreste di Luciano e l’apprendistato piccolo-criminale di Leo, nella seconda si torna a una narrazione cinematografica più di genere, con la vicenda complessa e ben più pericolosa del clan Carbone.

L’aspetto che ha lasciato entusiasta la critica al Festival del cinema di Venezia (in cui il film era in concorso) è la sintesi stilistica, in cui convergono moltissimi elementi provenienti dai generi cinematografici d’oltreoceano – Munzi ha guardato alle opere della Nuova Hollywood con grande attenzione, dalla saga di Francis Ford Coppola dedicata all’immaginario clan Corleone, ai più recenti lavori di Brian De Palma e Abel Ferrara –, ma sempre calibrati e temperati sulle lezioni più importanti dell’attuale cinema documentario italiano, dal lavoro sperimentale di Michelangelo Frammartino ne Le Quattro Volte ambientato proprio in Aspromonte, alle tinte cupe de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo.

Nel cinema ogni questione estetica è sempre in qualche misura etica, e il regista dimostra di saperlo perfettamente. Il cinema italiano, infatti, nei primi film sulla mafia di Elio Petri e Francesco Rosi, ha sempre schivato con forza ogni declinazione di genere, evitando di scadere in una celebrazione del fenomeno mafioso: in tal senso un film come Lucky Luciano di Rosi è una perfetta manifestazione della tensione anticelebrativa della scuola italiana degli anni ’70. Oggi, tuttavia, si è toccata in maniera sempre più evidente una certa forma di celebrazione di questi fenomeni criminali – si pensi a opere recenti come Vallanzasca - Gli angeli del male di Michele Placido –, incline a un certo compiacimento della loro rappresentazione, sfociata poi in prodotti televisivi o semi-televisivi alquanto ambigui sul piano morale (da Il capo dei capi al più recente Gomorra - La serie). Anime nere si spinge invece nella direzione opposta. «Nel film non si vedranno mitizzazioni dei criminali o fascinazioni pericolose» – ha avuto modo di dire Francesco Munzi in un’intervista rilasciata a Lucia Lipari il 4 settembre 2014 –, «si vedrà il dramma, il tradimento e l’isolamento che certe scelte portano e questo è veramente educativo per i ragazzi. Si traccia un destino di sconfitta, sono anime che non si salvano, quelle anime non sono la Calabria, ma solo una piccola parte della Calabria che alla fine prende coscienza di quello che ha fatto ed esorta tutti a non emulare vite sbagliate, perché non hanno nulla di mitico».

La presa di distanza dai protagonisti è resa dalla struttura corale del racconto, in cui viene annullata la focalizzazione su un singolo personaggio, che sta invece alla base della celebrazione criminale al cinema, da Il Padrino di Coppola a Outrage di Kitano, e privilegiando le scene di insieme, in cui i caratteri di ognuno dei fratelli Carbone vengono esaltati per contrasto, ponendo sempre ogni snodo narrativo in termini dialettici. In ambito critico, soprattutto internazionale, si è spesso fatto riferimento a Gomorra di Matteo Garrone come un possibile iniziatore di tale percorso. Seppure entrambe le opere siano accomunate dalla necessità di trovare nuove strade visive per raccontare la malavita, va però ricordato che i film hanno un punto di partenza letterario molto diverso: Roberto Saviano, autore di Gomorra, è un romanziere che si inserisce in quella giuntura tra saggio e romanzo, avvicinandosi più ai territori dell’inchiesta giornalistica, mentre Gioacchino Chirico -è vicino allo stile noir di Massimo Carlotto e Wu Ming, che dialoga solo lateralmente con la letteratura politica di scrittori come Leonardo Sciascia. Inoltre la resa finale di Gomorra risente di un certo fascino che il tema della morte e della violenza esercita su Matteo Garrone, del tutto assente invece in Anime nere, che, anzi, inscrive la violenza finale nella tradizione di una tragedia classica, che apre, in qualche misura, alla catarsi dello spettatore. È proprio il finale il momento in cui il regista tenta una delle soluzioni più interessanti e più rischiose, dove il film si apre a un certo arcaismo tragico, avvicinando il personaggio di Luciano al sofocleo Creonte, portando l’intera narrazione fuori dai confini del realismo, tentando una nuova declinazione del soggetto criminale. Nelle immagini finali del film, in cui si ripropone la scena di apertura, sembra inserirsi una sottile speranza, su quella spiaggia silenziosa, quasi un coro tragico attraverso cui lo spettatore si apre al sogno di un futuro diverso per una terra martoriata e distante.

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