L’11 luglio la Corte ha reso noto il testo di due decisioni relative a ricorsi che erano stati proposti contro il Belgio da donne musulmane che si dolevano del divieto di indossare in pubblico un tipo di velo (il niqab) che copre per intero il volto lasciando scoperti solo gli occhi. I due ricorsi sono stati proposti da una cittadina belga, Samia Belcacemi, e da una cittadina marocchina, Yamina Oussar, (ricorso n. 37798/13) e Fouzia Dakir (ricorso n. 4619/12) anche lei cittadina belga.
Entrambi i ricorsi avevano, come detto, ad oggetto il divieto (sanzionato anche penalmente) di portare un velo integrale negli spazi pubblici, disposto dalla legislazione nazionale (una legge del giugno 2011) e da regolamenti comunali di applicazione della detta legislazione. Le ricorrenti Belcacemi e Oussar ritenevano che tali divieti violassero i diritti loro riconosciuti dagli articoli 3 (divieto di trattamenti disumani e degradanti), 5 (tutela della integrità fisica), 8 (tutela della vita privata), 9 (tutela della libertà religiosa e di opinione), 10 (libertà d’espressione), 11 libertà di associazione e riunione) e 14 (diritto alla non discriminazione) della Convenzione. La ricorrente Dakir lamentava la violazione degli articoli 8, 9, 10 e 14, ma si doleva pure della violazione degli articoli 6 (diritto all’equo processo) e 13 (diritto a un ricorso effettivo) perché era stato respinto un suo ricorso interno per ragioni solo formali.
La Corte ha reso due decisioni molto simili, quasi sovrapponibili, avallando l’operato delle autorità belghe nel perseguimento di fini che la Corte ha ritenuto pienamente legittimi: il mantenimento della pubblica sicurezza, la lotta contro la discriminazione tra i sessi e (sic!) “una certa concezione del vivere insieme nella società”. In relazione al caso Dakir ha invece ammesso la violazione del solo articolo 6.
Tornano alla mente le questioni affrontate tre anni or sono nella celebre decisione resa dalla Grande Camera nel caso S.A.S. contro Francia. Ma, a differenza della decisione della Grande Camera nel caso S.A.S. contro Francia, qui la Corte trova accettabile che la strategia antivelo venga perseguita anche come elemento di una complessiva strategia a tutela della pubblica sicurezza. In quel caso invece la Corte aveva osservato che per ragioni di pubblica sicurezza sarebbe stato sufficiente chiedere a chi porta il velo o il burqa di lasciarsi identificare ove appaia necessario. Va riconosciuto però che il clima è ormai decisamente cambiato e che dunque l’argomento della tutela della pubblica sicurezza presenta oggi ben altro appeal che tre anni fa.
Si ripropone poi l’argomento secondo il quale il divieto del velo sarebbe ammissibile perché celare il viso nuocerebbe alla qualità del «vivere insieme» in una società coesa e ordinata, valore che, unitamente a quello della pubblica sicurezza anche il Belgio (come a suo tempo la Francia) ha detto di voler tutelare attraverso la legislazione contestata. In altre parole, chi si vela si pone al di fuori di un contesto di regole condivise sulla normalità di relazioni umane basate sull’ostensione aperta del viso. Valore che, come evidenziato nella sua opinione concorrente dal giudice Spano, appare però di difficile precisazione e può finire con l’identificarsi con diffusi atteggiamenti xenofobi.
Anche questa volta, la Corte ha fatto riferimento alla circostanza che di fronte a scelte di tale rilievo sociale occorre riconoscere a chi decide (le autorità statali) un ampio margine d’apprezzamento, non potendo la Corte sostituire in casi così delicati le proprie valutazioni a quelle nazionali, specie quando non esiste una consolidata communis opinio nei vari Paesi europei.
Ricordo però che nel caso francese, ci furono due giudici dissidenti, Nussberger e Jäderblom, che allegarono opinioni separate nelle quali prendevano le distanze da questa affermazione della Corte. A queste posizioni si ricollega il giudice Spano, con la sua opinione concordante che accompagna entrambe le decisioni e che sottolinea anche come la legislazione belga preveda sanzioni penali che possono apparire eccessive in questi casi.
Conclude poi con una affermazione che sottoscriviamo con convinzione. Una restrizione a un qualsivoglia diritto è fondata solo se si basa su circostanze oggettive e facilmente identificabili e non su semplici opinioni o punti di vista anche se largamente condivisi.