American Beauty

Sam Mendes
USA 1999, Dreamworks, Commedia, 130 min
Scheda di: 
Fascicolo: aprile 2012
«American Beauty» è il nome di una rosa che Carolyn coltiva con maniacale attenzione, e costituisce la chiave di lettura per poter entrare nel cuore simbolico e tematico del film – una sorprendente opera prima di Sam Mendes, vincitore di ben 8 premi Oscar con questa pellicola – che aspira a raccontare la provincia americana attraverso categorie estetiche e stilistiche nuove e provocatorie. Una provincia fatta di giardini “geometrici”, casettine in legno da fiaba, residence-rifugio, luoghi dell’apparenza e della doppiezza, dove nulla sembra avere una reale profondità e dove i personaggi non riescono a vivere una propria dimensione personale. È sufficiente che Lester, un affermato pubblicitario, cominci a perdersi in fantasie erotiche su una delle amiche della figlia – ed è emblematico come questi sogni siano proprio accompagnati dalla rosa del titolo –, ipotizzando nuovi stili di vita (im)praticabili, per minare il castello di carta della famiglia Burnham e modificare radicalmente la vita dei protagonisti. American Beauty è un canto della bellezza dei “valori minimi”, coinvolge con forza i dispositivi dello sguardo: le telecamere e gli schermi ultrapiatti. I supporti della visione diventano indispensabili per le relazioni che si instaurano tra i personaggi – si pensi all’ossessione per la telecamera del giovane Ricky – e la differenza tra il mondo reale e l’immagine digitale sembra diventare un semplice scarto materiale tra desiderio e piacere. In una delle immagini riprese da Ricky con la videocamera c’è una busta di plastica che il vento muove disordinatamente. Il sacchetto svolge la funzione che in Forrest Gump era svolta dalla famosa piuma svolazzante, e come nella pellicola di Zemeckis è la semplicità dell’incanto estetico e la ricerca dell’innocenza a portare i personaggi nella giusta direzione, a guidarli verso la salvezza. American Beauty diluisce la meditazione sullo sguardo – sia filmico sia onirico – in una fabula intrisa di ironia ferocissima, sferzante e straordinariamente godibile: basta guardare Kevin Spacey cantare a squarciagola American Woman mentre guida verso casa, finalmente “liberato”, o Annette Bening farsi sedurre da un operatore immobiliare di successo, per capire quanto la leggerezza – tanto quella dei petali di rosa che piovono nei sogni di Lester, quanto quella dei sacchetti di plastica svolazzanti nei filmati di Ricky – sia la vera meta del film. Certo, chi chiede ad American Beauty una rivoluzione formale che vada di pari passo con le scosse telluriche del racconto, del progetto ideologico, della recitazione, non comprende che l’obiettivo del regista è proprio quello di riportare alla luce il cinema, visto e immaginato come luogo del sogno e della contemplazione, dove il semplice immaginare una bellezza proibita può drasticamente cambiare la traiettoria delle proprie vite.
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