«Sei venuto qui per essere educato e per imparare un mestiere utile... così domattina alle sei comincerai a sfilacciare stoppa. […] Dietro indicazione del mazziere, Oliver fece un grande inchino di ringraziamento per la concessione di queste due grazie combinate nell’unico e semplice processo di sfilacciare stoppa, dopo di che venne condotto in un gran dormitorio dove, coricato su di un rozzo e duro letto, singhiozzò finché fu preso dal sonno. Quale nobile celebrazione della dolcezza delle leggi inglesi! Permettono ai poveri niente meno che di andare a dormire!».
Questa è la descrizione che Charles Dickens dà dell’ingresso in una workhouse di Oliver Twist, all’età di nove anni. Tra l’Oliver Twist di Dickens e quanto sta accadendo nel mondo della produzione e del lavoro sotto l’impulso dell’Industria 4.0 vi è un sottile filo di collegamento: la preoccupazione per chi è destinato a restare ai margini di uno sviluppo che semina perdenti. Oggi siamo pienamente consapevoli che la velocità dei cambiamenti tecnologici e organizzativi di quella che viene definita la quarta rivoluzione industriale, se da un lato migliora sensibilmente la produttività dei sistemi economici, dall’altro erode posti di lavoro difficilmente rimpiazzabili con quelli necessari alle nuove professionalità richieste dal mercato. Di fronte a questa situazione sono quanto mai attuali gli interrogativi sul ruolo che le varie misure delle politiche pubbliche sono chiamate a svolgere.
A tal proposito, il libro di Cosma Orsi può essere letto come un percorso che traccia origine ed evoluzione del welfare state, alla ricerca delle mutevoli forme che ha assunto quella specifica modalità di intervento costituita dal reddito minimo garantito. Al tempo stesso l’A. presta una costante attenzione ai legami tra le diverse forme di welfare e la coeva elaborazione delle teorie economiche, per evidenziare come e quanto le stesse possano da un lato avere contribuito a porre sul tappeto lo specifico problema delle misure a sostegno dei poveri, dall’altro essersi tradotte in proposte di politica economica.
Nell’ampia rassegna presentata, che parte dalle riflessioni dei Padri della Chiesa e arriva fino al recente dibattito sul reddito minimo garantito, si ripercorrono alcuni secoli di pensiero ma anche di azioni che mostrano l’evoluzione delle teorie e delle politiche di assistenza ai poveri. L’obiettivo di questi interventi è chiaro fin da subito nell’intento di chi li propone: si tratta di studiare e porre in atto misure utili ad affrontare il problema della povertà in contesti che vedono la contemporanea presenza di ricchezza e di povertà, in cui si sperimenta insomma quel fenomeno da sempre intrinsecamente connesso alla crescita che è la disuguaglianza.
Interessante risulta il passaggio da alcune prime forme di assistenza in età medievale e moderna alle vere e proprie politiche di sostegno al reddito presenti di fatto sin dalla nascita del capitalismo. Come è noto, la punta più avanzata di elaborazione di pensiero e di azioni spetta al Regno Unito. La legislazione inglese per l’assistenza ai poveri, presente già all’inizio del Seicento, configura un sistema unico in quel periodo in Europa, caratterizzato da un grado di sistematicità tale da costituire una primitiva forma di welfare. Nel testo sono ben evidenziate le due fasi della elaborazione: quella della Old Poor Law, promulgata durante il regno di Elisabetta I, che resta in vigore per tutto il Seicento e il Settecento con lo scopo di migliorare la condizione degli indigenti tramite aiuti domiciliari, integrazioni salariali o il ricovero in istituti di lavoro o soccorso; successivamente la New Poor Law ha il suo momento culminante nel 1834, quando occorre modificare la legge precedente in seguito ai provvedimenti adottati dalla magistratura a Speenhamland nel 1795, che aveva introdotto la prassi di applicare integrazioni salariali a coloro che non raggiungevano un reddito sufficiente a garantire condizioni di vita dignitose.
Orsi non si limita a riportare le fasi storiche, ma riprende anche il dibattito sul tema, che si svolge in un momento di grande trasformazione per l’economia e la società inglese. Se in precedenza le situazioni di bisogno erano prevalentemente ricondotte a fattori naturali o ambientali – come malattie o carestie –, con il progressivo affermarsi di un’economia capitalistica a queste cause di insicurezza e povertà si aggiungono nuovi elementi economici e sociali. Dopo la prima fase di gestazione dell’Old Poor Law, prende infatti forma un dibattito circa la bontà di questo sistema che vede contrapporsi quanti erano favorevoli ai provvedimenti emanati e chi ne chiedeva l’abolizione, ritenendoli una indebita intrusione da parte dello Stato in dinamiche che invece potevano trovare un naturale equilibrio se lasciate libere di seguire il proprio corso. Per esemplificare: se Adam Smith critica i danni dell’Act of Settlement sulla mobilità dei lavoratori, Thomas Malthus e David Ricardo sottolineano l’effetto deleterio delle leggi sul livello dei salari e quindi sulla popolazione nel suo complesso, proponendo come soluzione la totale abolizione delle Poor Laws. Tra i sostenitori del sistema troviamo invece Jeremy Bentham, che ne fa una questione di giustizia, anche di ordine sociale. Al di là delle singole posizioni, che meritano di essere lette nel volume che con chiarezza le ripropone, le Poor Laws non vengono recepite in maniera del tutto positiva da una società che esce dal particolarismo feudale ed è contemporaneamente influenzata dalle nuove filosofie utilitariste. Gli inglesi – confrontandosi con gli altri Paesi dell’Europa continentale privi di una vera legislazione per i poveri o con sistemi di assistenza molto più blandi – vedono l’assistenza fornita per legge ai poveri come un elemento non di sviluppo e progresso, ma di debolezza, sintomo di un lassismo a cui occorre porre un freno.
Come spesso accade nella storia del pensiero economico, ci sono temi che passano da un momento di fortuna a uno successivo di oblio. In queste fasi diventano preziosi i contributi degli economisti eterodossi che non si stancano di percorrere strade abbandonate dai pensatori cosiddetti mainstream. Orsi ci mostra che al di fuori del Regno Unito proposte di reddito minimo sono state avanzate da economisti francesi, belgi, statunitensi. In seguito anche la teoria non immediatamente interessata al tema ha contribuito a offrire strumenti di analisi dei problemi socioeconomici che si sono rivelati utili nel momento della ripresa del dibattito, quando si è posto con particolare evidenza e urgenza il problema di conciliare il funzionamento del moderno capitalismo industriale con una maggiore stabilità macroeconomica nel periodo tra le due guerre e soprattutto subito dopo la crisi del 1929. Il volume esamina sia questo fondamentale dibattito – che vede tra i suoi ispiratori John Maynard Keynes e tra i suoi protagonisti James Meade, Joan Robinson, Oskar Lange, Abba Lerner –, sia quello successivo alla Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti, tra George Stigler, John Kenneth Galbraith, Milton Friedman, James Tobin.
Venendo ai nostri giorni, si introduce un ulteriore elemento di attenzione. È innegabile l’elevata preoccupazione che le conseguenze negative di un capitalismo globalizzato, caratterizzato dalla concentrazione di risorse nelle mani di élite sempre più ristrette, possano favorire lo stabilirsi di regimi antidemocratici. Si pensi al trilemma posto dall’economista Dani Rodrik, che ritiene impossibile che possano esservi contemporaneamente Stato nazionale, globalizzazione, democrazia: quale dei tre elementi, se non la democrazia, risulta più probabilmente sacrificabile? A fronte di questo rischio può essere utile tornare alle riflessioni che il libro ripropone sui fallimenti di un capitalismo non governato. Proprio da quelle riflessioni sono nati in molti Paesi occidentali i sistemi di welfare, fatti di redistribuzione delle risorse non solo sotto forma di salari più adeguati al costo della vita, ma anche di accesso a servizi sociali, educativi, sanitari.
Se negli anni ’80 si è molto insistito sulla necessità di passare da sistemi di welfare a sistemi di workfare, che legano le erogazioni alle prestazioni lavorative per evitare possibili effetti disincentivanti sull’offerta di lavoro, oggi questa prospettiva mette seriamente a rischio le categorie più vulnerabili, considerata la crescente scarsità, flessibilità e precarizzazione del lavoro, che è spesso inadeguato alla formazione acquisita. Il welfare va dunque ripensato anche alla luce di riflessioni già condotte in passato, in particolare rispetto alla necessità di non bloccare la mobilità sociale e di rimettere al centro una effettiva uguaglianza di diritti sociali e politici per i cittadini. L’A. ci ricorda come su questo fronte siano attivi da anni economisti, sociologi, filosofi, che hanno posto il tema all’attenzione dell’agenda politica; cita altresì le esperienze di India, Brasile, Namibia, Sudafrica, e ricorda anche il pronunciamento del 2017 della Commissione europea che indica tra gli obiettivi fondamentali dell’Unione l’adozione di un reddito minimo di base. Che cosa occorre allora perché venga raccolta la lezione del passato, perché si evitino i rischi di un uso meramente populistico del welfare in generale e del reddito minimo nello specifico? Occorre qualcosa che gli economisti, i filosofi, i sociologi, non possono nei loro ruoli accademici determinare. Occorre una visione chiara della società che si vuole realizzare, dei suoi valori, delle sue priorità.