«Ex Africa semper aliquid novi», sosteneva Plinio il Vecchio (Dall’Africa arriva sempre qualcosa di nuovo). Nel giro di pochi anni le principali narrazioni sul Continente nero sono passate dall’”afropessimismo” che commiserava “l’ultimo miliardo” all’afroeuforia che celebra l’«Africa emergente», in virtù dei tassi di crescita record del PIL di diversi Paesi africani (cfr Boario M. – Fantini E., «
L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente», in
Aggiornamenti Sociali, 06-07 [2014] 482-493). L’attenzione all’Africa, ormai consolidata all’estero, come continente di nuove opportunità, soprattutto in termini di mercati e investimenti, si sta affermando anche in Italia, come dimostrano il recente viaggio di Matteo Renzi in Mozambico e Angola, o le analisi del rapporto ISPI
Scommettere sull’Africa emergente (dicembre 2013).
L’immaginario del “cuore di tenebra” non esita tuttavia a riaffiorare periodicamente nelle cronache dei conflitti, della povertà e delle epidemie come quella del virus Ebola che ancora attanagliano il continente.
Per orientarsi tra queste iperboli, gli economisti Federico Bonaglia (OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e Lucia Wegner (Università di Wageningen e consulente di Oxfam) propongono uno sguardo che definiscono «afrorealista» grazie a numeri ragionati, grafici, immagini efficaci e box di approfondimento su casi specifici.
Il primo capitolo del loro volume introduce la posizione e il ruolo dell’Africa nell’economia globale, sottolineando come la sua crescita economica media nel periodo 2004-2012 sia stata superiore a quella dei Paesi OCSE, ma anche come complessivamente il suo peso nell’economia mondiale sia diminuito di un punto percentuale rispetto al 1980. Gli AA. si concentrano in particolare sulle trasformazioni demografiche e urbane – oggi l’Africa ha la popolazione più giovane e il tasso di urbanizzazione più rapido del pianeta – identificando i fattori necessari a tradurre questi processi in occasioni di sviluppo.
Il capitolo II indaga le cause del boom economico africano degli ultimi quindici anni, frutto non solo dell’aumento delle esportazioni e dei prezzi delle materie prime, ma anche di altri fattori quali, «il sostanziale miglioramento delle politiche macroeconomiche, il progresso verso la democrazia, l’emergere di una nuova classe dirigente, la diffusione delle tecnologie» (p. 51). Il capitolo III denuncia i limiti di questa crescita in termini di inclusività e sostenibilità, evidenziando come le fasce più povere della popolazione non ne abbiano di fatto beneficiato, e come essa resti particolarmente vulnerabile rispetto a conflitti e shock ambientali. Tra le possibili soluzioni a questi nodi, Bonaglia e Wegner si soffermano sulla necessità di riforme che promuovano profonde trasformazioni strutturali del tessuto economico, a partire dalla valorizzazione delle risorse naturali e dell’agricoltura: sono i piccoli produttori – secondo gli AA. – i soggetti su cui puntare per contrastare l’insicurezza alimentare e aumentare la produzione agricola, completando questo sostegno con politiche volte a ridurre la vulnerabilità degli agricoltori di sussistenza, a potenziare le piccole aziende orientate al commercio e a rendere i grandi investimenti agricoli più inclusivi e complementari con i piccoli produttori locali. Un elemento indispensabile per promuovere in Africa processi di trasformazione, non solo agricola, è rappresentato da un rinnovato investimento nell’istruzione e in particolare nella formazione professionale, soprattutto per cogliere il potenziale del «dividendo demografico» rappresentato dai giovani (cfr il capitolo V).
I capitoli IV e VI sono invece dedicati al ruolo economico e politico dell’Africa nell’attuale sistema multipolare di relazioni internazionali. Da un lato ci si sofferma sulle relazioni con le economie emergenti, caratterizzate da una progressiva diversificazione in termini sia di attori – accanto a Cina, India e Brasile, crescono Turchia, Corea del Sud, Malesia, ecc. – sia di investimenti, non più limitati alle materie prime ma ormai estesi ai settori delle costruzioni, dei trasporti, dell’agricoltura o delle telecomunicazioni. In questo contesto si inseriscono anche i crescenti investimenti delle stesse imprese africane, dalle economie più dinamiche come Sudafrica, Kenya o Nigeria, verso altri Paesi del continente. Affinché l’Africa non rimanga in una posizione subordinata nel contesto di questi scambi, e più in generale dell’economia globale, gli AA. individuano la necessità di superare «tre ostacoli fondamentali: la percezione negativa degli investitori internazionali circa i livelli di rischio nel continente, la scarsa integrazione regionale e il deficit infrastrutturale» (p. 138).
Dall’altro lato, Bonaglia e Wegner analizzano le relazioni dell’Africa con i suoi partner più tradizionali, USA e Unione Europea. Questi ultimi, incalzati dai Paesi emergenti, stanno cercando di ridefinire le loro strategie nei confronti dell’Africa, come indicano la rinnovata attenzione mostrata dall’amministrazione Obama in occasione dell’USA-Africa summit dello scorso luglio, o i negoziati sui nuovi accordi di partenariato economico tra UE e i cosiddetti Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico). Una crescente attenzione alla dimensione economica e commerciale del partenariato affianca ormai l’impostazione tradizionale in termini di aiuto pubblico allo sviluppo (APS), con i corollari di promozione di
good governance, lotta alla povertà e prevenzione dei conflitti. Gli aiuti continuano tuttavia a rappresentare una quota considerevole del reddito nazionale lordo e dei bilanci pubblici di molti Paesi africani. Anche in virtù di questa considerazione, gli AA. stigmatizzano il mancato rispetto da parte dei Paesi donatori degli impegni e degli obiettivi internazionali in materia di APS. Ciò è anche la conseguenza dello scarso peso dei Paesi africani nelle istituzioni multilaterali, sia politiche (ONU, G20) sia economiche (Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione mondiale del commercio). Il buon funzionamento di queste istituzioni resta tuttavia cruciale per i Paesi con scarso peso specifico a livello internazionale quali quelli africani, con forse l’unica eccezione del Sudafrica. Tra le soluzioni, oltre al rafforzamento dell’integrazione e della cooperazione a livello continentale attraverso l’Unione Africana, si individuano anche strumenti specifici come ad esempio il C-10, Comitato di ministri delle Finanze e governatori di banche centrali per affrontare il tema dell’impatto della crisi globale sui Paesi africani e coordinarne la partecipazione nelle istituzioni finanziarie internazionali. Nelle conclusioni gli AA. ricordano che «l’Africa è molto più complessa di quanto normalmente percepito» (p. 207), ricapitolando diversi stereotipi che la loro analisi intende sfatare, ad esempio ribadendo con decisione che «l’Africa non è un Paese!» (p. 207).
Fin dall’Introduzione, infatti, il lettore è invitato a non considerare il continente africano come una realtà monolitica, ma a riconoscerne la varietà e la pluralità economica, sociale e culturale. Questa consapevolezza avrebbe forse potuto essere ulteriormente approfondita nel volume, che rimane piuttosto incentrato sull’Africa come continente, dedicando maggior attenzione alle specificità politiche, geografiche, storiche e culturali dei vari Paesi – che spingono molti a parlare di Afriche, al plurale – e alla costruzione di tipologie di Stati e di loro traiettorie sulla base dell’interazione tra queste variabili. Analogamente, l’inserzione dei Paesi africani nelle reti dell’economia globale avviene attraverso processi selettivi di inclusione di alcuni attori e luoghi – si pensi ai siti di estrazione delle materie prime o le zone economiche speciali – e di emarginazione o addirittura di espulsione di altri. Gli AA. si soffermano soprattutto sugli aspetti economici di questi processi, e più in generale della realtà africana. Per cogliere appieno il significato e la portata di queste trasformazioni, l’analisi economica andrebbe integrata con l’approfondimento delle dinamiche sociali, politiche e culturali: si pensi ad esempio all’effervescenza religiosa dell’Africa e alle sue implicazioni in termini di sviluppo, crescita economica ed adesione a reti transnazionali. Un «continente in movimento» richiede saperi e discipline altrettanto mobili.