Di media si può fare indigestione. Oggi più che mai. Negli anni, infatti, con una brusca accelerazione nell’ultimo decennio, il nostro menù quotidiano di comunicazione mediale si è arricchito al punto da produrre fenomeni di vera e propria obesità, esattamente come accade con il consumo eccessivo e non consapevole di cibo.
Sia i media tradizionali – soprattutto la televisione, con la proliferazione di canali resa possibile dalla trasmissione satellitare e digitale –, sia Internet, con il passaggio al web 2.0 e la diversificazione dei dispositivi di connessione (tablet e smartphone), hanno incrementato a dismisura la quantità di tempo che trascorriamo con gli occhi puntati su uno schermo e consumando informazione: 11 ore giornaliere in media, secondo le più aggiornate ricerche statunitensi, considerando nel calcolo cellulari, computer, televisione, radio e gli altri strumenti mediali con cui entriamo in contatto fuori casa. Tutto ciò si ripercuote, inevitabilmente, sulla nostra qualità della vita, a partire dalla sfera delle relazioni sociali ma con importanti conseguenze anche sotto il profilo psicologico, specialmente nei soggetti più deboli (giovani e persone con limitati strumenti culturali), relativamente al grado di soddisfazione personale nei confronti del proprio vissuto. Né più né meno di quanto accade, per l’appunto, con l’obesità.
È costruito proprio sul parallelismo fra cibo e comunicazione questo agile e documentato lavoro di Marco Gui, sociologo della cultura e dei media all’Università di Milano-Bicocca. Un parallelismo per nulla forzato, anzi convincente perché, come scrive l’A. in premessa, «molti dei problemi che l’utente dei media si trova oggi ad affrontare mostrano grandi somiglianze con quanto successo dopo l’industrializzazione dei processi di produzione alimentare: pensiamo al rischio di sovraconsumo mediatico, alla difficoltà di selezionare informazione di qualità, alla fatica nel “gustare” con calma un contenuto» (p. 11).
Partendo dall’analisi dell’“obesità mediale”, a cui dedica interamente il primo capitolo della sua indagine con un excursus diacronico sulle trasformazioni che nella storia hanno interessato il mondo dei media, Gui affronta sistematicamente, nei capitoli successivi, le problematiche principali legate al sovraconsumo degli strumenti informativi: la necessità di “difendersi” limitando la quantità di tempo passata tra web, radio, TV e altri canali comunicativi; la difficoltà nel fare selezione, individuando i contenuti di qualità nel mare magnum della rete, dell’etere e dei programmi televisivi e radiofonici; la fatica di mantenere la concentrazione sotto il logorio martellante dei messaggi che ritmano il vivere e lavorare; i contraccolpi della sovrabbondanza mediale sulle relazioni interpersonali e sul percorso formativo dei più giovani.
Lo studioso milanese non si allinea né alla schiera degli ottimisti a tutti i costi (che ridimensionano gli elementi di rischio del sovraconsumo mediale), né a quella degli ipercritici, ma sceglie piuttosto un approccio pragmatico e costruttivo, basato su una bibliografia internazionale aggiornatissima (riportata in coda al saggio) e sulla propria esperienza professionale. Non nasconde neppure la difficoltà di arrivare a considerazioni esaustive circa un tema ancora troppo recente nelle sue manifestazioni per poter offrire risposte certe e sul quale tanto la riflessione collettiva è agli albori quanto la letteratura scientifica non è in grado di offrire, a tutt’oggi, univoche interpretazioni, invitando però entrambe a porre il tema fra le priorità da affrontare.
Obiettivo di fondo dell’indagine è individuare i molti nodi del rapporto fra consumo mediatico e qualità della vita, intesa nel senso di «benessere individuale nella vita quotidiana» (p. 14), e di provare a offrire le possibili strade per aiutare gli utenti a sciogliere quei nodi. Al pari del suo corrispettivo in ambito alimentare, l’obesità mediale non è soltanto un fenomeno di quantità, ma riguarda anche la qualità dei contenuti veicolati, cui si aggiunge la loro capacità di “inseguirci” ovunque, nel lavoro come nel tempo libero (attraverso i device nei quali vengono incanalati), ma pure la loro rimodulabilità. Due possibilità, queste, introdotte dalla digitalizzazione e dal suo peculiare linguaggio, che ha permesso di unificare le diverse reti comunicative (tradizionali e non) e i diversi strumenti di fruizione.
Se questo è il contesto di riferimento, per evitare di essere travolti da tale flusso di messaggi e di stimoli mediatici la prima contromisura da adottare, secondo l’A., è quella dell’autolimitazione: saper ridurre quindi i tempi di “esposizione”. Ciò riguarda tutti i media, a partire dalla TV, divenuta interattiva e la cui fruizione è ormai fortemente intrecciata ai “nuovi” strumenti del web, quali le chat e i social network, ma diventa fondamentale soprattutto nei confronti della rete, il cui “fascino” coinvolge tutte le tipologie di utenti – per età, condizione sociale ed economica – ma può portare a derive patologiche nei giovanissimi e nelle persone di più basso livello culturale, che in assenza di stimoli alternativi trascorrono molte ore della propria giornata “navigando”.
La seconda sfida che occorre affrontare per tenere un’adeguata “dieta” mediatica riguarda la selezione dei contenuti. Il fenomeno è noto e studiato per quel che concerne la televisione, dove la proliferazione dei canali ha contribuito a rendere ardua la capacità selettiva del telespettatore e dove prevale, nell’utente medio, la tendenza a privilegiare i contenuti sensazionalistici, violenti, che offrono gratificazione immediata
o comunque una forte attrattiva emozionale. Nel caso di Internet, anche in virtù della facilità estrema di accesso ai contenuti garantita da tablet e smartphone, al problema della scelta d’impeto, che risponde in maniera immediata alle “esche” gettate dai produttori di contenuti (si pensi soprattutto alla forza attrattiva di alcuni siti e dei post dei principali social network), si aggiunge quello della valutazione ragionata, particolarmente ardua di fronte alla sterminata quantità di materiali a disposizione. Qui entra in gioco il tema dell’alfabetizzazione digitale, una miscela di competenze tecniche, di gestione delle informazioni e di strategia d’uso dei nuovi strumenti. Siamo ormai un passo più in là del digital divide; oggi il distinguo più forte è fra le persone già on line, in base alle loro capacità di muoversi in tale ambiente. Questo tema tocca da vicino la generazione dei “nativi digitali”, i quali avendo grande dimestichezza con i nuovi device fin dai primi anni di vita sono fruitori tecnicamente evoluti, ma non hanno e non possono avere, se non adeguatamente educati, gli strumenti per orientarsi senza rischi nella Rete.
I giovanissimi sono anche la categoria che più risente del terzo nodo problematico della bulimia mediatica affrontato da Gui: quello della difficoltà di concentrazione. Dopo aver scelto un contenuto, infatti, bisogna poterne fruire, ritagliandosi del tempo. Ma sotto il “diluvio” di distrazioni, interruzioni, notifiche cui siamo sottoposti, diventa un’impresa trovare questo tempo e farlo fruttare. L’allenamento all’attenzione e la disciplina diventano dunque due capacità fondamentali, anche perché il cosiddetto multitasking, cioè l’utilizzo in contemporanea di diversi dispositivi o di diverse interfacce all’interno dello stesso dispositivo, cozza contro le effettive possibilità delle nostre facoltà cognitive, che sono tutt’al più in grado di spostare velocemente l’attenzione da un’attività all’altra, ma non di gestire all’unisono contenuti e operazioni differenti.
L’A. affronta opportunamente anche il tema del rapporto fra i media e l’apprendimento, centrale nella riflessione circa l’utilizzo degli strumenti digitali da parte delle istituzioni formative, soprattutto la scuola. Anche in questo ambito le sperimentazioni fin qui effettuate non hanno prodotto risultati decisivi a sposare gli entusiasmi dei sostenitori della necessità di aggiornare radicalmente le pratiche didattiche o le paure degli assertori del sistema tradizionale di trasmissione del sapere; non a caso, certe accelerazioni sono rientrate e si sta procedendo, un po’ ovunque, con cautela, valutando i pro e i contro dell’utilizzo generalizzato di tablet, e-book e altri dispositivi digitali nelle scuole.
L’ultimo capitolo dell’indagine di Gui è dedicato all’analisi delle ripercussioni dei media sulla vita relazionale degli individui. Se è noto che la televisione, specie nei più giovani, tende a «colonizzare il tempo dedicato ad altre attività» (p. 109), gli effetti prodotti dall’iperconsumo del web sono di più complessa interpretazione, anche per la peculiarità del mezzo stesso, che nella sua declinazione social tende a sostituirsi al tessuto relazionale tradizionale. Senza negare gli aspetti positivi in termini di socialità legati alla partecipazione ai network, l’A. mette in guardia dai rischi di vivere due dimensioni relazionali pubbliche (una on line e una off line) potenzialmente stridenti e rimarca i pericoli, per i più giovani, di sovrapposizione dei due piani con ricadute negative sulla capacità di autorappresentazione.
In conclusione, Gui si sofferma su un aspetto cruciale dell’“obesità mediale”: la sua rilevanza come problema sociale. Così com’è avvenuto a livello mondiale per le questioni legate al consumo alimentare, occorre oggi sensibilizzare l’opinione pubblica, ma soprattutto le istituzioni educative e il potere politico, sul tema della “dieta” mediatica, ponendo la massima attenzione a rendere accessibile ai più l’information literacy, ovvero la capacità di «reperire informazioni, contestualizzarle, valutarne l’affidabilità e saperle riutilizzare per produrre nuova conoscenza» (p. 137). In altre parole, bisogna adoperarsi per aiutare le persone a non riempire oltremodo il “piatto” dell’informazione, scegliendo con attenzione la qualità e il gusto delle “pietanze”, diventando così fruitori responsabili dei media.
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