A casa nostra

di Lucas Belvaux
Movies Inspired, Francia, Belgio 2017, drammatico, 117 min
Scheda di: 
Fascicolo: giugno-luglio 2017

La trama del film

Pauline, un’infermiera a domicilio che lavora tra Lens e Lille, trascorre la sua giornata occupandosi degli altri. I pazienti durante il lavoro, e i due figli e il padre, un anziano metalmeccanico, nelle restanti ore della giornata. Grazie alla sua generosità, Pauline è molto amata dagli abitanti della sua piccola città nel nord della Francia: approfittando di questa popolarità, la leader di un partito estremista – il fantomatico Raggruppamento nazionalpopolare – le proporrà di candidarsi alle elezioni comunali.


C’è una circolarità che domina A casa nostra, l’ultimo film del regista belga Lucas Belvaux, uscito lo scorso 27 aprile nelle sale italiane. È quella tra le immagini delle case di Hénart, paese immaginario della Francia periferica, che compaiono all’inizio e alla fine della narrazione. Sono inquadrature stranianti, perché interrompono con la loro lentezza il ritmo ben calibrato del film, ma forse sono necessarie per comprendere l’atmosfera entro cui ci vuole condurre il regista. Ovvero quella di una realtà notturna, metafora dell’ombra buia che pesa sulla comunità, nella quale gli individui preferiscono rintanarsi all’interno del loro guscio domestico mentre le strade (si legga, lo spazio comune della socialità) restano deserte. Questi elementi rivelano che la nota sotterranea del film è la paura: un terrore verso l’altro che viene costantemente represso o edulcorato attraverso formule politicamente corrette, quali le battute scambiate durante il barbecue dagli amici di Pauline, la giovane infermiera protagonista del film, o il fatto che tutti i personaggi che entrano nell’agone politico si trovino a pronunciare la rituale frase scagionante «non sono razzista».

Belvaux non ha mai fatto mistero di essersi ispirato al Fronte nazionale di Marine Le Pen, a partire dal titolo – nella versione originale Chez nous –, che prende in prestito lo slogan «on est chez nous», più volte urlato durante i comizi. Le polemiche all’uscita del film – che in Francia è avvenuta il 22 febbraio e dunque in piena campagna elettorale – non si sono fatte attendere: Florian Philippot, vicepresidente del Fronte nazionale, ha infatti definito scandalosa l’intera operazione. Eppure sarebbe riduttivo interpretare A casa nostra come un film militante, creato ad hoc per dissuadere l’elettorato lepeniano. La lucida analisi che Belvaux fa della Francia contemporanea e delle ragioni economiche, sociali e psicologiche che hanno mosso i cittadini verso formazioni politiche tradizionalmente considerate fuori dall’arco “repubblicano” si adatta a descrivere un quadro più esteso, almeno a livello europeo, mettendo efficacemente a fuoco alcune dinamiche che stanno spianando la strada a un populismo sempre più aggressivo e intollerante.

Il regista, noto per una trilogia del 2002 (Una coppia perfetta, Rincorsa e Dopo la vita, in cui racconta gli stessi avvenimenti ma utilizzando un differente registro), dà un’ulteriore prova del suo eclettismo e della sua capacità di muoversi tra commedia e dramma, affrontando con tocco leggero ma non superficiale temi sensibili. Per A casa nostra ha scelto di lavorare ancora una volta – dopo il precedente Sarà il mio tipo? (2014) – con Émilie Dequenne, volto iconico del cinema contemporaneo. Il suo nome potrebbe non dire molto al pubblico italiano, ma chi conosce il film Rosetta dei fratelli Dardenne (Palma d’oro a Cannes), di cui è stata protagonista nel 1999, la ricorderà nei panni di una ragazzina alla ricerca disperata di un lavoro per mantenere se stessa e la madre. All’epoca, questa storia ambientata in Belgio colpì profondamente l’immaginario collettivo del Paese: nelle manifestazioni sindacali i partecipanti urlavano «Siamo tutti Rosetta!» e, proprio grazie a quest’opera, si creò un movimento di opinione che sfociò nell’approvazione di una legge sul lavoro minorile chiamata, appunto, Legge Rosetta (Rosetta Plan), volta ad aiutare i giovani a trovare un impiego.

Ritrovare il volto della protagonista di allora nella Francia di oggi produce un cortocircuito interessante. Soprattutto perché il regista decide di farle incarnare uno dei tantissimi elettori che arrivano a votare l’estrema destra pur provenendo da ambienti progressisti, quando non di estrema sinistra. È il caso di Pauline: suo padre, infatti, è un ex operaio che ha lavorato per molti anni alla Metalfrance, salvo ammalarsi a causa dell’amianto e abbandonare la lotta sindacale; la madre, deceduta, lavorava alla mensa scolastica, mentre il resto della famiglia è formato da minatori e operai. Pauline rappresenta anche il disorientamento di chi, come lei, sceglie di passare quasi inconsapevolmente alla via dell’intolleranza per un senso di sfiducia nelle istituzioni, nella politica e nei partiti tradizionali. Una vicenda nella quale in diversi possono ritrovarsi e che non riguarda solo chi vive oltralpe.

La scelta dell’attrice protagonista, mai casuale in un film, qui si ammanta di ulteriori significati: se il film dei fratelli Dardenne voleva gettare uno sguardo diverso sugli emarginati del Belgio, A casa nostra porta in primo piano il Nord-Pas-de-Calais, la regione francese più settentrionale, che la politica ha per diverso tempo posto in secondo piano e in cui Marine Le Pen ha ottenuto molti consensi alle recenti elezioni presidenziali. Nonostante il risultato elettorale a favore del neopresidente Emmanuel Macron, infatti, il nuovo proletariato francese si è riconosciuto in molte delle istanze incarnate dalla leader del Fronte nazionale. Sono numerosi gli intellettuali che hanno provato a interrogarsi sul fenomeno. Tra loro, ad esempio, l’enfant prodige della letteratura d’oltralpe Édouard Louis, che nel suo libro di esordio Il caso Eddy Bellegueule ha descritto – spesso con disturbante brutalità – la visione del mondo della sua famiglia d’origine, molto simile a quella delle famiglie che appaiono in A casa nostra: operaie, marginalizzate, terrorizzate dalla presenza di immigrati e, quasi come conseguenza, razziste.

Soffermandosi a raccontare la vita del paese di Hénart, Belvaux ricrea con maestria sul grande schermo una contraddizione che esiste in questa comunità: quella tra conservatorismo e desiderio di sovvertire le istituzioni. La professione di infermiera porta Pauline a entrare nelle case delle persone, a varcare la soglia dell’intimità per conoscere i drammi individuali, nei quali c’è sempre un risvolto sociale. Gli anziani che accudisce, ad esempio, vorrebbero preservare l’identità francese dalla presenza degli immigrati, ma contemporaneamente detestano la politica e i suoi rappresentanti, da cui si sentono abbandonati. Allo stesso modo, l’amica di Pauline vorrebbe mandare a casa la vecchia classe politica, ma finisce per aderire a un movimento che combatte per riportare la Francia indietro nel tempo. D’altra parte, contraddittorio è anche lo stesso partito che chiama Pauline all’impegno: un facsimile del partito di Marine Le Pen (con una leader a sua volta in conflitto con la figura paterna), che inneggia alla libertà del popolo, ma finisce per imporre in maniera autoritaria le proprie direttive. Sarà la stessa Pauline a farne le spese, quando proverà a opporre resistenza alla prima richiesta: tingersi i capelli di biondo, per essere più telegenica e rassicurante. Dovrà piegarsi alle decisioni del partito e cambiare il suo modo di essere a partire dall’aspetto, per poi arrivare a trasformare il suo sguardo sulla realtà.

Il paesaggio umano che Belvaux dipinge si popola a poco a poco di odio, lasciando emergere un istinto aggressivo e violento che si impadronisce di tutti i personaggi: non solo il nuovo compagno di Pauline, che tende agguati per punire gli immigrati che commettono furti ai danni della comunità – riflesso di una sfiducia dei cittadini anche nelle stesse forze dell’ordine e nella giustizia –, ma anche la componente musulmana della cittadina, come la ragazzina e la madre che non vogliono più ricevere Pauline in casa dopo la sua candidatura a sindaco, nonostante la solidarietà che hanno sempre ricevuto dall’infermiera. L’intolleranza fa presa anche sui più piccoli, vittime della propaganda xenofoba trovata online, rispetto alla quale i genitori sono incapaci di fare da filtro. La seduzione del male, ci dice Belvaux, può riprendere vigore improvvisamente, dissotterrando meccanismi distruttivi da cui l’umanità di oggi si pensa al sicuro. È emblematica in questo senso la metafora iniziale del film, dove un uomo, arando un campo con un trattore, trova una serie di missili inesplosi risalenti a uno degli scontri bellici avvenuti in quell’area. Come a dire che, se la guerra oggi sembra una minaccia lontana, i semi dell’odio che la producono sono invece già presenti nella nostra società. Sta a noi la responsabilità di non farli attecchire cercando la via della verità oltre le bugie della propaganda, come fa Pauline nella conclusione del film che qui non riveliamo per non rovinarne la visione.

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