Antonio Da Re
Professore ordinario di Filosofia morale, Università di Padova; membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.
Quando qualche anno fa è stata approvata la L. n. 219/2017, non ho potuto che esprimere la mia soddisfazione, sia perché introduceva nell’ordinamento italiano l’istituto delle DAT, sia perché prevedeva la cosiddetta pianificazione condivisa delle cure, una figura molto interessante di declinazione della relazione tra medico e paziente, specie quando quest’ultimo vada incontro a una patologia cronica, invalidante o con prognosi infausta. Ho sempre pensato che le DAT potessero essere una modalità originale di dar voce al paziente, anche quando non ha più voce, a causa dell’aggravarsi della malattia. Non ho mai pensato però che le DAT potessero d’incanto risolvere tutte le problematiche e i dilemmi che comunque potrebbero presentarsi al medico e, su un altro piano, ai familiari. Insomma, per vari motivi, che ora farei fatica ad argomentare in poche righe, ho sempre trovato improprio e irrealistico concepire le DAT come una sorta di ordine di servizio stilato dal paziente al quale il medico dovrebbe ciecamente obbedire, o al contrario intenderle, depotenziandone il significato, come indicazioni genericissime da offrire al medico, libero poi di fatto di decidere in piena autonomia.
Il modello di DAT elaborato dal Gruppo di studio sulla bioetica mi sembra s’ispiri a questa via mediana, saggia e realistica, in base alla quale alcune scelte sono chiaramente segnalate, evitando però qualsiasi forma di irrigidimento. Riguardo alle scelte elencate nel modello, va tenuto presente che il paziente, nel sottoscrivere le DAT, dovrà specificare se per esempio rifiuta o accetta i trattamenti di supporto vitale quali la ventilazione meccanica invasiva, la tracheostomia, la ventilazione meccanica non invasiva, l’emodialisi, le manovre di rianimazione cardio-polmonare. Qui il modello sembra far propria la filosofia ispiratrice della L. n. 219/2017, che giustifica il rifiuto e la rinuncia alle cure da parte del paziente, senza per questo avallare l’eutanasia e il suicidio assistito (come è desumibile dall’art. 1, c. 6). D’altro canto, il modello non può irrigidire in poche tipologie la varietà delle situazioni cliniche, che per giunta, in futuro, a seguito dell’avanzamento scientifico e tecnologico, potrebbero essere interpretate in modo differente rispetto a quando erano state stilate le DAT. Per questo motivo il modulo contempla la possibilità che il paziente formuli ulteriori disposizioni su trattamenti che potrebbero essere resi disponibili in futuro; ugualmente viene valorizzata la figura del fiduciario, che in dialogo con l’équipe curante è chiamato a valutare quale trattamento sia giustificato in quella specifica situazione concreta, sempre però nel rispetto della volontà del paziente.
Stante l’inevitabile incertezza dovuta alla sfasatura temporale di volontà formulate in precedenza, senza che esse ovviamente potessero tener conto della particolarità della situazione attuale, qualcuno potrebbe concludere che le DAT sono uno strumento alla fin fine vuoto e inutile. Così non è, per alcune ragioni che contraddistinguono proprio il modello qui proposto. Molta attenzione viene infatti riservata alla stesura delle DAT, che l’interessato dovrebbe auspicabilmente redigere in dialogo con il proprio medico di fiducia e coinvolgendo anche i familiari e le persone care. Le DAT insomma, così intese, diventano una modalità moderna per riprendere quell’antico esercizio, mirabilmente descritto da Seneca, della meditatio mortis: «‘Abituati – egli scrive nella Epist. XXVI, 10 – a pensare alla morte’. Chi dice questo invita a pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra e, in ogni caso, al di fuori, di ogni umana potenza». Forse sta proprio qui il valore primario delle DAT: nel formularle il paziente è chiamato a riflettere su di sé, sui propri affetti, sulla propria storia di vita, sulla prova della malattia e sulla sofferenza che l’accompagna, sull’esito finale della morte, ultima espressione della vita. Questa meditatio per il cristiano si copre di significati ulteriori nella prospettiva della fede nel Risorto. È il «mistero» di cui parla Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (15, 51-53): «Noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità».