Il panorama delle serie televisive in Italia è stato a lungo caratterizzato dalla tradizione dello sceneggiato, debitore al teatro di prosa, che ha impedito fino a tempi recenti la creazione di prodotti di buona qualità filmica, optando quasi sempre per lavori di sceneggiatura con poco spazio per l’invenzione registica o lo sviluppo narrativo. Segnali di novità si registrano dagli anni duemila in poi con alcune valide serie, come
La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana o
Boris, che hanno saputo entusiasmare gli spettatori più smaliziati, mentre la comune programmazione consta di prodotti come
Don Matteo,
I Cesaroni o
Squadra antimafia. In questo scenario si inserisce la serie
1992, un prodotto televisivo realizzato dall’emittente via cavo Sky, che dal 2008 ha compiuto la scelta strategica di produrre in Italia serie televisive di qualità e di respiro internazionale (ad esempio
Romanzo criminale e
Quo vadis baby?)
1992 mette in scena i cambiamenti – politici, economici, sociali, culturali e di costume – dell’Italia nella stagione di Mani Pulite: da un lato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, con la caduta dei partiti storici (Democrazia cristiana e Partito socialista
in primis) e dall’altro il contesto mediatico, con l’avvento delle televisioni commerciali e il mutamento dell’immaginario collettivo che ne è seguito. Personaggio portante – interpretato dall’ideatore della serie, Stefano Accorsi – è Leonardo Notte, pubblicitario di Publitalia con un passato da militante di un gruppo extra-parlamentare di estrema sinistra, collaboratore personale di Marcello Dell’Utri e responsabile del gruppo di ricerca alla base della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi.
A lui legati, in maniera talvolta sporadica o casuale, sono gli altri quattro personaggi: Bibì Mainaghi, figlia di un imprenditore implicato nelle indagini; Pietro Bosco, veterano della prima guerra del Golfo e parlamentare della Lega Nord; Veronica Castello, showgirl televisiva e prostituta; Luca Pastore, poliziotto sieropositivo, parte del gruppo operativo di Antonio Di Pietro. La sceneggiatura mette davanti allo spettatore un intricato dedalo di racconti, intrecciati tra loro, in cui si alternano momenti e personaggi inventati a reali avvenimenti storici.
Anziché focalizzarsi sulla storia recente italiana, la serie utilizza le indagini del pool Mani pulite come semplice sfondo per raccontare un’epoca di passaggio, in cui si sono affacciati nuovi paradigmi estetici (la televisione di
Non è la Rai e la comicità demenziale dei cinepanettoni natalizi) e politici (la nascita di Forza Italia e Lega Nord). C’è chi, come Domenico Naso su
Il fatto quotidiano, ha visto nella serie «Un concentrato di quello che furono quegli anni, fin troppo concentrato: i corrotti, l’AIDS, la droga, la TV, tutto assieme sullo sfondo dell’inchiesta Mani Pulite e del crollo dell’Impero partitocratico. I personaggi, poi, sono così stereotipati da sembrare quasi macchiettistici: il bolognese imborghesito candidato del PDS, i leghisti ignoranti e burberi, la soubrette, il manager di Publitalia con l’ex moglie hippy che vive a Bologna e mangia bio. I dialoghi a volte sono surreali e un po’ ridicoli» (in <
www.ilfattoquotidiano.it>).
Se è vero che, soprattutto nelle puntate iniziali, sembra prevalere un’ansia di raccontare, accumulando fatti storici e vicende inventate, alzando i toni e calcando la mano, l’esperimento più interessante della serie è il continuo rimandare a come l’Italia di oggi affonda le sue radici proprio in quel periodo chiave della storia politica, giuridica e, soprattutto, mediatica. Da leghista antisistema, Pietro Bosco diventa così un antesignano dei grillini di oggi, con un linguaggio protestatario, antagonista – come l’insistito «Tutti a casa!» rivolto ai parlamentari democristiani –, carico di termini aggressivi e volgari. O ancora Veronica Castello, giovane showgirl che rimanda, neanche troppo sottilmente, alle recenti vicende giudiziarie e mediatiche delle “olgettine”, ragazze disposte a prostituirsi pur di ottenere un posto in televisione. Il modello su cui si sviluppa il personaggio di Leonardo Notte è forse il meno italiano e sembra modellato sul Don Draper della celeberrima serie americana
Mad Man, ma, attraverso la sua professione di pubblicitario, consente di mettere in scena l’evoluzione del costume prodottasi in quegli anni nel nostro Paese. Quando, nella seconda puntata, Leonardo deve convincere un cliente estremamente difficile e mostra una cassetta di
Non è la Rai per iniziare ad abbinare l’immagine di ragazze molto giovani e poco vestite a prodotti commerciali, si palesa la svolta irreversibile dell’estetica e dell’industria pubblicitaria italiana, snodo di un processo che non solo ha coinvolto pubblicità e televisione, ma che ha condizionato, attraverso i media, i bisogni e i desideri di un’intera nazione (come la ricerca del successo a ogni costo).
1992 è una serie che si muove così «nell’orbita del sole berlusconiano» – per usare un’espressione cara allo scrittore Walter Siti – e racconta l’Italia in cui nasce il fenomeno politico e culturale più rilevante, nel bene o nel male, degli ultimi vent’anni: il berlusconismo. È questo il vero cuore della serie. Non a caso, proprio su un giornale fortemente schierato come
Libero, Francesco Borgonovo propone una delle chiavi di lettura più interessanti per leggere l’intera serie: «Quella che si tenta, semmai, è un’analisi antropologica. A un certo punto si riporta una frase di Formentini secondo cui gli uomini di Berlusconi sarebbero un esercito di plastica. Ed ecco che la camera scorre inquadrando la coda alla mensa di Publitalia: una sfilata di acconciature diverse ma simili. Appare un tipo umano unico, con minime variazioni. Ecco il lato negativo dell’antropologia berlusconiana. Ma c’è anche quello positivo: la carica sovversiva del “sogno”, la spinta del cambiamento in un Paese soffocato, annichilito. Berlusconi è presentato appunto come un alieno che può portare un vento fresco in un Palazzo pieno di dinosauri» (<
www.liberoquotidiano.it>).
Se questo aspetto di rappresentazione antropologica è uno tra i più interessanti della serie, dall’altro lato il continuo passaggio da finzione a realtà storica permette, anche a un pubblico più giovane, di entrare in una pagina di storia complessa ed estremamente importante. Il ritratto dell’Italia che viene restituito è quello di un Paese, affetto da un male inestirpabile, che non viene mai scalfito né dal dubbio né dalla giustizia. La condotta del protagonista Leonardo Notte – ricatti, omicidi, uso della prostituzione per fini politici, rapporti sessuali con minorenni – ne è l’esempio. Si descrive così l’immagine di una società senza speranza. Ed è qui che forse – seppure il lavoro di regia sia molto curato – che sembra meno appropriata la scelta di ricorrere al registro televisivo americano. Laddove
House of cards, serie americana prodotta da David Fincher che costituisce uno dei due modelli ispiratori di
1992, cerca di sviluppare, stagione dopo stagione, un processo di svelamento della dialettica, parzialmente ipocrita, della politica americana, la serie italiana sottolinea qualcosa che è già sotto gli occhi di tutti. In un Paese come l’Italia, dove politica e pubblicità non si riparano dietro una patina di
politically correct (gli esempi potrebbero essere numerosi, dalle questioni legate al razzismo a quelle delle pari opportunità), la serie non svela nulla di nuovo, ma sembra, talvolta, indugiare sulla negatività dei personaggi che dovrebbe stigmatizzare.
Certo, l’ambizione di
1992 è fare dell’intrattenimento di qualità, guardando in chiave commerciale più alle produzioni americane che al cinema civile italiano di Francesco Rosi o di Marco Risi, allontanandosi anche dalla forma del cine-racconto televisivo de
La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. In questo senso, la serie di Sky non ha alcun intento educativo (almeno a livello programmatico) e non tenta di attingere alla tradizione del linguaggio della cinematografia politica italiana, che si animava prima di idee e poi di mezzi registici. Ma, proprio attraverso quest’ottica così marcatamente narrativa,
1992 permette di dire una parola chiara sulla situazione odierna – in effetti, talvolta, sembra parlare più dell’oggi che dell’Italia di vent’anni fa –, ponendo lo spettatore nella difficile posizione di scegliere se immedesimarsi con i suoi protagonisti, sempre scorretti e ambigui, o invece prenderne le distanze condannandoli. Ed è questa libertà che rende la serie un prodotto ambizioso – per qualcuno anche irritante – ma che permette, a chi è nato dopo quegli anni, di comprendere “chi eravamo per capire chi saremo”.