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Il “metodo Francesco” e l’Italia: proposte per i nuovi parlamentari

Nei primi cinque anni di pontificato, papa Francesco ha proposto un approccio originale, organico anche se non sistematico, che ha segnato l’opinione pubblica globale. Affrontiamo con il suo “metodo” la situazione italiana all’indomani delle elezioni del 4 marzo, cercando strade concrete per riscoprire il «gusto di essere popolo».
Fascicolo: marzo 2018

Il 13 marzo cade il quinto anniversario dell’elezione di papa Francesco. L’opinione pubblica e i media nazionali saranno probabilmente impegnati a digerire i risultati delle urne, ma siamo certi che l’anniversario non mancherà di suscitare attenzione. Dichiarato subito “uomo dell’anno” dalla rivista Time, papa Francesco ha segnato profondamente l’opinione pubblica globale presentando un volto inatteso della Chiesa, che ha ugualmente stupito quanti vi si riconoscono con entusiasmo e quanti faticano a ritrovarvisi, riuscendo a catturare l’attenzione anche di chi per storia e cultura si colloca al di fuori della comunità cattolica.

In questi cinque anni Aggiornamenti Sociali ha dedicato al Pontefice argentino alcune centinaia di pagine, una selezione delle quali costituirà il dossier «Cinque anni con papa Francesco». Ripercorrendole, si incontrano le tante parole chiave lanciate da papa Francesco, alcune diventate veri e propri slogan: periferie esistenziali, inequità, cultura dello scarto, dialogo, verità relazionale, cura, ecologia integrale, sobrietà, discernimento, gioia, ecc. Grazie a questa attenzione costante ci siamo resi sempre più conto che i gesti e le parole di papa Francesco non sono frutto di uno slancio estemporaneo, ma rispondono a una logica precisa e a un approccio originale, che abbiamo definito organico anche se non sistematico, la cui elaborazione, iniziata ben prima dell’elezione al soglio pontificio, continua con rigore e tenacia. La vera forza di papa Francesco sta nel paradigma e nel metodo che adotta, anche se, inevitabilmente, restano in secondo piano nella comunicazione mediatica. La stessa difficoltà di sintonia con alcune componenti della Chiesa deriva con ogni probabilità proprio dalla differenza di paradigma sottostante.

Il “metodo Francesco” e l’agenda politica italiana

Prima di entrare nel cuore del discorso politico, riassumiamo alcuni elementi di quello che possiamo chiamare “metodo Francesco”, precisando subito che non si tratta di una tattica, di una tecnica o di una teoria: papa Francesco ama la concretezza del Vangelo e guarda il mondo contemporaneo a partire dall’esperienza personale della forza di liberazione che l’annuncio evangelico scatena, nelle persone come nelle dinamiche sociali. Unisce così l’attenzione alla dimensione interiore e affettiva dell’esperienza di fede con lo sguardo capace di cogliere i “segni dei tempi” nell’evoluzione della cultura e della società.

Di fronte alla consapevolezza che la fede e la Chiesa si collocano oggi in un tessuto sociale sempre più pluralista, multiculturale e multireligioso, egli è abitato da un approccio integrale, capace di affrontare la complessità senza rimanerne schiacciato grazie alla focalizzazione sui nessi e i legami che uniscono fenomeni apparentemente distanti e all’attenzione alla pluralità dei punti di vista sulla realtà. L’immagine che meglio lo traduce è quella del poliedro, le cui facce sono unite senza essere uniformate e al cui interno è possibile valorizzare il contributo di coloro che stanno ai margini: concepire la realtà come un poliedro è un antidoto alla tentazione rappresentata dai molti riduzionismi oggi in circolazione. Abitarne la complessità richiede di procedere con il metodo del discernimento che, declinato nello spazio pubblico, diventa dialogo: incontro onesto tra i portatori delle diverse posizioni alla ricerca sincera di quello che tradizionalmente si chiama bene comune, ma che le radici argentine di papa Francesco esprimono con l’immagine della costruzione di un soggetto collettivo. Incontro e dialogo per attraversare i conflitti e diventare insieme popolo, e provarne il gusto. Quella che ci viene proposta non è dunque una fede in ritirata, ma un impegno che sceglie di entrare nella storia con la logica dell’incarnazione, animando processi dall’interno e non occupando spazi di potere, rinunciando a esercitare un dominio per proporsi piuttosto come “collaboratori della gioia” (cfr 2Corinzi 1,24).

Siamo abituati a vedere il “metodo Francesco” in azione su questioni ecclesiali (la pastorale delle famiglie a cui è dedicata l’Amoris laetitia) o nell’approccio a problemi globali (come la cura della casa comune oggetto della Laudato si’), ma le sue potenzialità si possono impiegare anche in altri contesti: Francesco stesso ha invitato la Chiesa italiana ad assumerlo al Convegno di Firenze del 2015. Siamo convinti che esso possa essere una risorsa anche in ambito politico, specie dove è evidente la fatica di far fronte a situazioni e problemi nuovi con strumenti logori e obsoleti: l’esito inevitabile è lo stallo di cui anche la società e la politica italiana fanno troppo spesso esperienza. Le nostre democrazie hanno bisogno di essere rifondate e rivitalizzate – lo ha ricordato papa Francesco ogni volta che ha incontrato i Movimenti popolari – e per farlo serve esattamente la capacità di integrare e far dialogare le differenze.

Il nuovo Parlamento italiano che uscirà dalle elezioni del 4 marzo – di cui non conosciamo l’esito nel momento in cui scriviamo – non potrà esimersi dal misurarsi con questo compito, anche se la campagna elettorale lascia temere che gli strumenti per farlo possano scarseggiare. Per questo ci sembra interessante provare a declinare il “metodo Francesco” nel concreto dell’agenda politica italiana, come strumento per costruire una visione comune sostenibile e identificare le priorità di azione. Ne avrà bisogno chiunque assumerà il compito di governare il Paese, ma anche la società civile e l’insieme dei cittadini, in modo da poter partecipare responsabilmente senza sedersi ad aspettare lamentandosi. Ci concentreremo in particolare su due nodi di particolare rilevanza: la progettazione del processo di sviluppo sociale ed economico del Paese e l’immigrazione. Sul secondo sono stati puntati i riflettori durante la campagna elettorale, oscurando il primo e dimenticando che non si possono trovare soluzioni durature a singoli problemi senza inserirli in un quadro d’insieme: il modo di stare all’interno del mondo delle migrazioni globali dipende dal progetto di società che vogliamo costruire.

Scommettere su un modello circolare di sviluppo

I segnali di consolidamento di una timida ripresa economica e l’impatto positivo sui conti pubblici sono incoraggianti (cfr a questo riguardo Ambrosanio M.F. – Balduzzi P., «Finanza pubblica italiana: bilancio della legislatura», qui alle pp. 190-201), ma non dobbiamo dimenticare che la fine della recessione e la ripresa della crescita non sono necessariamente sinonimo di uscita dalla crisi, specie quando i nodi strutturali che l’avevano generata non sono ancora stati affrontati e risolti. La fatica nel far scendere anche il tasso di disoccupazione ne è una drammatica prova.

L’Italia – in questo tutt’altro che sola – ha bisogno di riprendere in mano la riflessione sul proprio modello di sviluppo. Non è questione che si possa rimandare: il sistema produttivo deve adeguarsi alle novità dell’Industria 4.0 se non vuole rimanere tagliato fuori dalla competizione internazionale, mentre la lotta ai cambiamenti climatici richiede di uscire da un modello di approvvigionamento energetico fondato sui combustibili fossili. Al tempo stesso dobbiamo elaborare un nuovo patto di solidarietà intergenerazionale: lo dobbiamo ai troppi giovani oggi lasciati ai margini e a quelli che, ogni anno meno numerosi, dovranno domani sostenere il carico previdenziale di una quota crescente di popolazione anziana. Infine, a livello nazionale ma soprattutto globale, poco è stato fatto per contenere la minaccia che una finanza eccessivamente speculativa pone all’economia reale. Resta aperta anche la domanda sul livello di disuguaglianza (cfr l’Infografica alle pp. 242-243) e sul rapporto tra chi guadagna producendo e chi può ricorrere alle diverse forme di rendita o di speculazione.

Di fronte all’ampiezza e alla profondità della posta in gioco, abbiamo bisogno di «ridefinire il progresso» (LS, n. 194), e questo richiede di tornare a interrogarci sul senso e la finalità dell’economia. Non è dunque solo per essere intellettualmente all’ultima moda che risulta interessante approfondire la prospettiva dell’economia circolare. Il modello economico prevalente è infatti di tipo lineare, fondato sulla successione di tre fasi: produzione, consumo e smaltimento. Oggi più che mai siamo consapevoli della sua insostenibilità, perché saccheggia le risorse disponibili e rende l’ambiente progressivamente meno ospitale. L’economia circolare si fonda invece sul paradigma dei sistemi biologici, capaci di trasformare scarti e residui in opportunità e risorse per nuovi processi. In una parola, è un’economia pensata per potersi rigenerare da sola il più possibile, secondo la definizione che ne dà la Ellen MacArthur Foundation, la più autorevole fonte sulla materia.

Il passaggio all’economia circolare ha riflessi evidenti, ad esempio, nel campo della politica energetica, così come sul ciclo di vita dei materiali e la gestione dei rifiuti. Essa comporta un cambiamento di paradigma sistemico, che crea una resilienza a lungo termine, genera opportunità commerciali ed economiche in una prospettiva di sostenibilità sociale e ambientale. Contrariamente a quanto pensano molti – a partire dal presidente statunitense Donald Trump – non significa spendere di più o mettere in ginocchio il sistema produttivo, ma investire meglio e valorizzare tutte le risorse. Questo passaggio non può avvenire senza essere accompagnato da adeguate misure politiche: richiede di ragionare su come indirizzare i meccanismi di incentivazione dell’economia, e quindi sull’architettura del sistema fiscale, così come sulla definizione di normative che promuovano alcuni processi anziché ostacolarli, ma anche di arricchire gli indicatori alla base delle politiche economiche. Nei mesi scorsi abbiamo registrato segnali interessanti in questa direzione, ad esempio l’introduzione degli indicatori di Benessere equo e sostenibile (BES) nei documenti di politica economica, o la nuova normativa europea sulla rendicontazione della sostenibilità sociale e ambientale da parte delle imprese. La legislatura appena conclusa ha anche visto l’approvazione della legge antisprechi per i prodotti alimentari e farmaceutici (L. n. 166/2016). Su questa linea occorrerà proseguire con maggior decisione, per creare le condizioni favorevoli alla transizione, gestendo le inevitabili resistenze di chi nel breve periodo vedrà peggiorare le prospettive della propria attività e anche stabilendo la direzione da seguire.

Combinare il paradigma dell’economia circolare con lo sguardo integrale di papa Francesco permette di renderci conto che il cambio di logica non può riguardare solo energia e materiali: anche le persone sono vittime della stessa cultura dello scarto che genera il saccheggio e il degrado dell’ambiente. Occorre evitare che il sistema le espella o almeno costruire prospettive concrete per “rimetterle in circolo”, valorizzarle, ridare loro dignità. Anche in questo caso la politica sarà chiamata ad accompagnare e facilitare questi processi. Nel piano d’azione del prossimo Governo non potrà mancare il sostegno a quelle situazioni in cui produzione, occupazione e salvaguardia dell’ambiente si promuovono a vicenda: è il campo di quella che abbiamo imparato a chiamare green economy.

Un secondo fronte di pari importanza sarà quello del welfare e dei cosiddetti ammortizzatori sociali: in ottica circolare, sono chiamati a uscire da una logica assistenziale per diventare strumenti di attivazione delle risorse personali e sostegni non tanto al reddito quanto all’occupabilità. Cogliamo nell’istituzione del REI (reddito di inclusione) in chiusura della legislatura, prima misura universale del nostro ordinamento per il contrasto alla povertà, un segnale interessante, che andrà attuato correttamente, sviluppato ed esteso. L’Alleanza contro la povertà, cioè il cartello di organizzazioni della società civile a cui si deve l’elaborazione della proposta (di cui anche Aggiornamenti Sociali fa parte), si sta già attrezzando per il monitoraggio della fase di attuazione, in una interessante sinergia tra società civile ed enti locali e previdenziali.

La legislatura che si apre coinciderà anche con la fase di attuazione della riforma del Terzo settore, portata a termine in quella precedente. Il processo andrà accompagnato nella corretta direzione: in un’ottica integrale e circolare risulta strategico tutelare e potenziare la varietà e l’originalità di tutte le forme di iniziativa economica e sociale che non rispondono alla logica della remunerazione del capitale. La dinamicità, la trasparenza e l’efficienza del Terzo settore sono valori importanti da promuovere, ma non possono andare a discapito della tutela della biodiversità delle forme d’impresa, omologandole tutte a un unico modello.

Italia inclusiva: di fronte all’immigrazione

Abbiamo messo in evidenza più volte che Francesco ha fatto della solidarietà con i migranti uno degli assi portanti del suo pontificato. Lo ha manifestato scegliendo Lampedusa come meta del primo viaggio apostolico (luglio 2013), prendendo duramente posizione contro il progetto di costruzione di un muro sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti e istituendo, all’interno del nuovo Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, una Sezione dedicata a migranti e rifugiati, di cui mantiene la guida diretta. Alla luce delle considerazioni sul suo metodo sono più chiare le ragioni di questa decisione: i barconi che affondano nel Mediterraneo, così come le persone che perdono la vita attraversando il deserto o subiscono gli abusi dei trafficanti, sono l’esito estremo della cultura dello scarto da cui è necessario ripartire per invertire la rotta. Al tempo stesso, la questione delle migrazioni è diventata la faglia su cui si scaricano le tensioni e le conflittualità sociali: non è possibile procedere nella costruzione di un soggetto collettivo davvero inclusivo senza assumerle e affrontarle. La campagna elettorale appena conclusa non ha mancato di mostrare quanto questo sia vero anche per l’Italia.

L’Italia continuerà a essere interessata dai movimenti di persone che puntano a raggiungere l’Europa per sfuggire ai pericoli a cui sono esposte nel proprio Paese e provare a costruirsi un futuro migliore. La questione migratoria resterà a lungo tra le priorità della nostra agenda politica e questo rende interessante cercare una declinazione per il nostro Paese dei quattro verbi che da ormai un anno papa Francesco propone come base per articolare una risposta rispettosa della dignità delle persone coinvolte: «accogliere, proteggere, promuovere e integrare».

Accogliere rimanda innanzi tutto alla generosità che l’Italia ha dimostrato in questi anni, per la quale papa Francesco stesso ha espresso la sua gratitudine (Discorso ai membri del Corpo diplomatico, 8 gennaio 2018), auspicando che le difficoltà incontrate «non portino a chiusure e preclusioni». Ma riguarda anche quello che succede nel Mediterraneo e negli hot spot, così come nelle comunità locali che, per ragioni sempre da indagare, si oppongono all’insediamento anche di piccoli gruppi di stranieri. Accogliere chiama in causa la dimensione europea e la condivisione di uno sforzo che non può che essere comune, e mette in discussione una retorica abusata e la cultura che le è sottesa: ripetere “aiutiamoli a casa loro” non diventa un pretesto per non farsi carico di un problema che coinvolge tutti?

Proteggere evoca il diritto fondamentale alla vita di ciascuno, in ogni momento e in ogni condizione sociale. In chiave politica proteggere chiama in causa l’organizzazione e le risorse a disposizione dello SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), la distinzione sempre più artificiosa tra rifugiati e migranti economici, la questione dei corridoi umanitari, gli accordi con la Libia e la Turchia, le politiche di respingimento, i criteri di pattugliamento del Mediterraneo, che, nel passaggio da Mare nostrum a Triton, sono mutati da umanitari a securitari. L’obiettivo corretto di reprimere il traffico di essere umani non si può risolvere nell’abbandonare le vittime nelle grinfie dei trafficanti. Proteggere, declinato nella logica del poliedro, ci chiede soprattutto di abbandonare la retorica che rintraccia un conflitto insanabile tra la sicurezza “nostra” e la “loro”, imprigionandoci strumentalmente nell’obbligo di scegliere tra l’una e l’altra. Il risultato, come dimostrano i recenti fatti di Macerata, è lo scatenarsi di una violenza che ha il sapore della faida. Una politica sana deve trovare il modo di accompagnare comunità e territori, sottraendo terreno a questa logica perversa.

Anche promuovere deve misurarsi con la deriva retorica e culturale che immagina che la soluzione consista nello stabilire a chi tocca passare per primo, trasformando i diritti di tutti in privilegi di alcuni, negando l’uguaglianza affermata dalla Costituzione e frammentando la solidarietà sociale attraverso un meccanismo che si basa su competizione ed esclusione. Poi evidentemente tocca le questioni del lavoro e delle pari opportunità: è qui che appare con la massima evidenza quanto la questione migratoria non possa essere affrontata staccandola da quella del modello di sviluppo.

Integrare rimanda infine alla necessità di accompagnare la società e tutti i suoi membri a far propria la logica del poliedro, costruendo attraverso il dialogo sociale – in vista del quale anche il mondo della comunicazione, social network compresi, deve essere aiutato a fare la propria parte – le condizioni perché tutti possano trovare il proprio posto, in cui sentirsi riconosciuti e non minacciati. Integrare richiede anche di riprendere uno dei progetti rimasti incompiuti nella passata legislatura: la riforma della legge sulla cittadinanza.

Attuare politiche ispirate a questi quattro verbi richiede da parte dei governanti di praticare «la virtù della prudenza» (Papa Francesco, Messaggio per la celebrazione della 51a Giornata mondiale della pace, 1° gennaio 2018, Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace), che va intesa come sinonimo di discernimento. Portarlo a termine richiederà il contributo di molti, in un clima di dialogo, a partire da quelle componenti della società civile che già operano per affrontare il problema, tra cui le 19 che nelle ultime settimane hanno presentato le loro «Proposte per una nuova agenda sulle migrazioni in Italia» (cfr <http://centroastalli.it/13192>). Ancora una volta siamo rimandati al cuore del “metodo Francesco”.

In nome dell’amicizia sociale

La questione dell’integrazione così come la logica del poliedro ci riportano dunque a quell’amicizia sociale la cui cura papa Francesco ha espressamente raccomandato alla Chiesa italiana in occasione del Convegno di Firenze. Nella sua classicità, l’espressione fa quasi sorridere, almeno a prima vista. Ma, pensandoci meglio, non è l’amicizia sociale il vero bisogno di un Paese che un osservatorio autorevole come il CENSIS ha scoperto abitato dal rancore e dal risentimento? Le tossine della campagna elettorale rischiano di peggiorare ancora una situazione, che invece richiede di essere presa in carico. Anche da questo punto di vista serve un cambio di paradigma nel lessico della politica e della società.

Il modo per operare questo cambiamento è quello di reintrodurre nel discorso pubblico la questione della verità, per quanto possa sembrare paradossale nell’epoca delle fake news e della post-verità. La svolta è comprenderla come costitutivamente relazionale, in quanto parola scambiata, e quindi sempre storicamente e culturalmente situata, e che per questo invita costantemente a trascendere la propria posizione in un dialogo tra coscienze che diventa dono reciproco. Senza questa base non vi può essere né amicizia sociale, né un progetto o un bene comune, ma solo l’ossequio a un potere che si teme, o il rispetto della clausole contrattuali dettate dalla lungimiranza dell’autointeresse. È questa una delle prime lezioni che papa Francesco ha impartito, rispondendo, l’11 settembre 2013, alle domande che gli aveva posto il fondatore de la Repubblica, Eugenio Scalfari. Incontriamo qui la radice ultima, squisitamente teologica, del “metodo Francesco”.

In prossimità delle scadenze elettorali (ma non solo) sulle pagine di Aggiornamenti Sociali è spesso comparso l’interrogativo sul posto e il ruolo dei cristiani in politica, che si ripropone anche nella nostra epoca post-ideologica. Pur teologicamente fondato, il “metodo Francesco” non è di per sé esclusivamente confessionale e per riconoscere i bisogni a cui può rispondere − a partire da quel rinnovamento di paradigma che possa rilanciare un Paese che troppo spesso appare imballato dal punto di vista sia economico sia sociale − non è necessario rivestirsi dell’identità cattolica. Tuttavia, come ogni metodo, ha bisogno di essere promosso, mostrandone i vantaggi, e difeso quando cercano di imporsi logiche diverse o l’assolutizzazione di interessi di parte: potrebbe essere il metodo, anziché contenuti identitari specifici, il contributo dei cattolici al rinnovamento politico del Paese? Quale che sia l’esito delle elezioni, è già certo che la società italiana e il Parlamento che la rappresenterà dopo il 4 marzo avranno grande bisogno di cura dell’amicizia sociale e di capacità di dialogo. C’è del lavoro da fare per i cattolici in politica.

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