La storia attribuisce questa frase al re Enrico IV, ugonotto e di religione protestante alla vigilia della sua conversione al cattolicesimo (siamo alla fine del 1550). Con questa espressione il primo sovrano borbonico francese sintetizza la sua decisione di divenire cattolico, condizione indispensabile per accedere al trono di Francia.
Al di là del significato attribuito generalmente alla frase «Parigi val bene una messa», qui intendiamo che vale la pena sacrificarsi per uno scopo alto, che si può rinunciare a qualcosa di importante per ottenere ciò che è considerato più rilevante.
Quando tra poche settimane si aprirà la
Conferenza Onu sui cambiamenti climatici, proprio nella capitale francese, avremo bisogno di riscoprire questo spirito, nella sua accezione più positiva, volto a sacrificare qualcosa di considerevole in vista di un bene maggiore; avremo bisogno di una spregiudicatezza simile, dovremo quasi essere disposti a tutto. Per chi? Lo dobbiamo almeno a due «regni»: i poveri e i cittadini di domani.
Secondo il recente rapporto della Banca Mondiale
Shock Waves: Managing the Impacts of Climate Change on Poverty, le conseguenze dei cambiamenti climatici potrebbero portare alla povertà estrema oltre 100 milioni di persone nel mondo entro il 2030 (tra 15 anni!) se non verranno subito approntate a livello politico internazionale delle misure efficaci in diversi settori strategici (come ad esempio l’agricoltura).
Il documento evidenzia che sconfiggere la povertà - il primo degli
Obiettivi di Sviluppo Sostenibile adottati dall’Onu lo scorso settembre - sarebbe impossibile senza affrontare i cambiamenti climatici: il modo migliore di procedere è quello di progettare e realizzare soluzioni che pongano fine alla povertà estrema e stabilizzino il clima, secondo una strategia integrata.
Il secondo «regno» al quale dobbiamo «almeno una Messa» è simbolicamente rappresentato dalle future generazioni. Per chi erediterà una terra e un clima al limite della sopravvivenza – specie in alcune aree più vulnerabili –, per chi non può far sentire oggi la sua voce, non vota, non scrive sui giornali, non è neppure ancora nato, dobbiamo essere disposti a sacrificare molto dei nostri interessi e privilegi nazionali e particolari. Purtroppo la solidarietà con le generazioni future rischia di trasformarsi in vuota retorica, se non si coglie che «quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi» (Laudato sì’, n. 160).
Sappiamo che la sfida è ardua, perché il cambiamento climatico è trasversale non solo ai Paesi, ma anche alle generazioni, e dunque non risparmia nessuno. Che possa essere questo un esercizio di ecologia integrale, nella prospettiva della Laudato Sì’?