Ma Loute
La trama del film
Un imbranato ispettore di polizia e il suo assistente nel 1910, in Côte
d’Opale, nel Nord della Francia, indagano su alcune misteriose
sparizioni, mentre Ma Loute Brufort, figlio di poveri traghettatori, e
Billie Van Peteghem, ricca e degenerata ereditiera borghese, vivono una
storia d’amore che incontra l’opposizione di entrambe le famiglie.
In concorso all’ultimo Festival di Cannes con Ma Loute, Bruno Dumont si è confermato uno dei cineasti più interessanti e al contempo sfuggenti del panorama europeo. Dopo alcune pellicole dalle atmosfere cupe e rarefatte, il regista francese ha infatti virato verso la commedia in costume, lasciando alla farsa il compito di condurre lo spettatore verso una riflessione più profonda.
Con il suo ottavo lungometraggio, Dumont torna nei pressi della Côte d’Opale, in Normandia, dove ha ambientato anche la fortunata serie televisiva (trasmessa su Arte) P’tit Quinquin, che è stata vista da 1,5 milioni di spettatori in Francia, diventando un piccolo caso. Grazie a essa Dumont si è rivelato un regista d’essai in grado di intercettare anche l’interesse del grande pubblico. Ma Loute si colloca nella direzione intrapresa con P’tit Quinquin: l’adozione di situazioni surreali, un intreccio da detective story, con due poliziotti maldestri, e una storia d’amore al centro della trama.
Come a voler espandere il proprio esperimento televisivo, con Ma Loute Dumont ha ripensato la serie per il grande schermo, aggiungendo però un lavoro di costruzione delle inquadrature proprio del cinema. Ha così dato sfogo al suo estro immaginifico con composizioni alla Magritte, illuminate dalla luce oceanica, grazie a un importante lavoro sui colori e sulla fotografia. Visivamente Dumont si è ispirato a una serie di cartoline di inizio secolo, illustrative della regione settentrionale francese, che rappresentavano le divisioni di classe attraverso le immagini di giovani proletari che trasportano eleganti signore borghesi al di là della riva. Su una di queste immagini compariva il nome di Ma Loute. Dumont ricrea così, insieme al direttore della fotografia Jacques-Henri Lartigue, un’intera epoca a partire da immagini d’archivio, attraverso accurate scelte nei costumi, nella scenografia e negli oggetti di scena. La realizzazione di questo obiettivo è stata possibile grazie anche alle tecniche digitali, non usate prima di P’tit Quinquin, quando il regista era abituato a girare in pellicola 35mm. In Ma Loute, invece, il lavoro in digitale sui colori e sui suoni è fondamentale: ad esempio, dalle inquadrature della location è stata cancellata digitalmente ogni costruzione risalente a un periodo successivo al 1910, anno in cui è ambientata la vicenda.
Ma Loute si apre con una famiglia borghese che torna nella propria casa delle vacanze – una assurda architettura che si rifà allo stile egizio – per godersi la villeggiatura. Tutti i suoi componenti sono personaggi sopra le righe, il cui percorso si incrocia con quello di una famiglia di pescatori. Le passeggiate sulla spiaggia e i divertimenti vengono tuttavia funestati dalla sparizione di alcuni turisti. A questi eventi imprevisti si aggiunge l’innamoramento tra i figli dei due nuclei familiari, il rozzo Ma Loute (in Francia è anche un termine desueto per dire “donna”), e l’altera e benestante Billie. Il mistero delle sparizioni, tuttavia, viene immediatamente svelato allo spettatore, palesando che quella che stiamo guardando non è una detective story, bensì lo specchio deformante di due classi che vorrebbero celare la loro profonda somiglianza.
Oltre alla cura per l’aspetto visivo del film, Dumont dà risalto, nella versione originale, alla lingua parlata dai protagonisti, un francese ricchissimo di sfumature e doppi sensi che, unito alla tendenza al politicamente scorretto, è un modo per denunciare in maniera virulenta l’ingiustizia sociale e la volgarità di una borghesia vanesia ed esibizionista. Questo aspetto si riflette anche nella scelta degli attori. In genere, i personaggi del cinema di Dumont sono accomunati da uno stato di precarietà: interpretati da attori non professionisti, sono spesso scelti tra i lavoratori del Nord della Francia, dotati di volti capaci di raccontare – anche senza ricorrere alla parola – la fatica quotidiana e le difficoltà di esistenze ai margini. Ma in Ma Loute, per la prima volta, Dumont accosta ad attori non professionisti un trio di divi francesi: Fabrice Luchini, Juliette Binoche e Valeria Bruni Tedeschi, che non a caso sono chiamati a interpretare i privilegiati.
La narrazione si svolge nel panorama della Normandia con la sua bellezza selvaggia, fatta di dune, banchi di ostriche, scogliere e spiagge, tra le quali Dumont disperde i suoi personaggi, quasi fossero le miniature di un plastico. Nonostante questo paesaggio si presti ad azzerare le differenze e a mettere gli esseri umani di fronte alla loro comune condizione, i personaggi cercano di conservare la contrapposizione tra i loro milieu sociali. Nella prima sequenza, ad esempio, la famiglia di pescatori, i Brufort, procede faticosamente a piedi, mentre la ricca famiglia dei Van Peteghem supera il gruppo con l’automobile, elogiando in maniera stucchevole il paesaggio («sublime!», «divino!»). Il sorpasso metaforico dei lavoratori da parte dei borghesi si ripete quando i Van Peteghem devono attraversare a piedi una piccola insenatura, e vengono trasportati a braccia dai pescatori. La diversità delle origini dei personaggi di Ma Loute appare immediatamente chiara e parla non solo della società francese di inizio Novecento, ma anche di quella di oggi, in cui si acutizzano la distanza e lo scontro sociale tra centro e periferie.
La differenza di classe si gioca anche sull’aspetto fisico dei personaggi, deformato dal regista secondo due modalità differenti. Gli altoborghesi vengono infatti stravolti attraverso la caricatura: incarnati da attori famosi, sarebbero di per sé attraenti e ricchi di fascino, ma divengono sgradevoli per l’eccessiva gestualità e per l’intonazione svenevole. I poveri, invece, nel film vengono derisi in quanto grotteschi, caratterizzati da tratti duri e irregolari, e sono interpretati nella maggior parte dei casi da non professionisti. Dunque, nel primo caso si tratta di una deformità acquisita, nel secondo caso innata. Giocando su queste contrapposizioni, Dumont evidenzia l’ipocrisia borghese e, in fondo, anche quella dello spettatore: considerare l’immoralità dei poveri come una caratteristica innata e non come dipendente da circostanze sfavorevoli. Allo stesso tempo, l’esotismo è per i Van Peteghem, così come per l’uomo occidentale in generale, l’unico modo in cui approcciare il diverso, mantenendo le distanze di sicurezza e mettendo a tacere la propria coscienza.
La gerarchia più volte riaffermata, tuttavia, viene sabotata da Ma Loute e da Billie che, contravvenendo alle regole, esprimono il desiderio di vivere il loro sentimento alla luce del sole. È proprio nel superamento degli steccati – sociali, economici e culturali – che, suggerisce Dumont, risiede la speranza di un futuro per l’essere umano. L’alternativa è infatti quella di un sistema di consanguinei che non può che produrre mostri: i Brufort che uccidono e divorano i villeggianti da una parte e gli incestuosi Van Peteghem dall’altra, le cui maniere affettate procurano allo spettatore un uguale senso di orrore. Le caricature che Dumont si diverte a esasperare, ricorrendo anche a effetti sonori mutuati dal cartoon, rappresentano in forma semiseria i vizi nascosti del capitalismo. La bestialità dei Brufort, infatti, è l’altra faccia della medaglia dell’intima volgarità d’animo dei Van Peteghem, che non può essere mitigata dalle buone maniere o dalla loro lussuosa dimora.
La seconda parte del film, in cui viene negata la possibilità dell’amore tra i due giovani, sembrerebbe escludere la speranza di un nuovo ordine, così come la possibilità di racconto, dal momento che l’intreccio vira sempre più verso l’assurdo. Ed è proprio a questo punto, inaspettatamente, che Dumont svela il punto di arrivo di una lotta di classe destinata a collassare su se stessa: improvvisamente, un personaggio si libra nell’aria. Dumont non concede ulteriori elementi allo spettatore, tanto che l’evento inspiegabile e totalmente slegato dalla narrazione potrebbe apparire un semplice divertissement dell’autore. Ma è proprio l’interpretazione più semplice a permettere di comprendere il senso della scena: solo un miracolo può zittire i presenti e frenare i contrasti. Il trascendente interviene nel mondo inaridito di Ma Loute come unico farmaco in grado di portare al superamento delle fratture più profonde.
In ultimo, Ma Loute è un’opera ludica che racchiude il senso di scoperta che accompagna l’età della riproduzione meccanica delle immagini, nei decenni successivi alla nascita della fotografia e del cinematografo. Non è casuale, infatti, la scelta di un periodo storico in cui la cultura occidentale diviene prepotentemente visiva, tanto che Dumont parte proprio da alcune cartoline per dare vita a questo carosello di poveri e ricchi. Pur cambiando i propri mezzi passando al digitale, Dumont riconferma la propria fiducia nella settima arte e nella sua capacità di parlare al passato per guardare al nostro presente.
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