ArticoloRecensioni

La lista della spesa

La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare

Fascicolo: novembre 2015
Carlo Cottarelli, attualmente Direttore esecutivo del Fondo monetario internazionale, è stato Commissario straordinario alla revisione della spesa pubblica (la famigerata spending review) esattamente per un anno (ottobre 2013-ottobre 2014).

A distanza di alcuni mesi, affida a questo libro il racconto di quell’esperienza, che non è – come ci tiene a precisare l’A. – la cronistoria di un anno vissuto pericolosamente, bensì il tentativo – secondo noi ben riuscito – di un’operazione-verità sulla spesa pubblica. E quindi, già nelle prime pagine, Cottarelli avvisa il lettore di non aspettarsi rivelazioni su quello che accade nei corridoi dei ministeri, ma chiarezza sulla spesa pubblica italiana. Se c’è una cosa che ha imparato durante quell’anno, infatti, è «che ci sono troppe “leggende metropolitane” sulla spesa pubblica, con esagerazioni sia in un senso (“tutta la spesa è spreco”) sia nell’altro (“se si taglia la spesa pubblica si distrugge il welfare state”)» (p. 10).

Il libro si apre presentando in maniera chiara ed efficace i dati principali sulla spesa pubblica italiana, nella convinzione che «sia utile spiegare, in termini semplici ma precisi, quanto si spende, come si spende, quanto è già stato fatto e quanto resta da fare. Il libro quindi non è scritto per gli specialisti del settore, ma spero possa interessare anche a loro. Non troverete né tavole né grafici. Il mio editore dice che ogni tavola dimezza le vendite. Ma i numeri rilevanti sono nel testo. Spero non vi annoino troppo» (p. 11).

Nel 2013 (ultimo anno per il quale si hanno i dati definitivi) la spesa pubblica totale in Italia ammonta a 818 miliardi di euro (poco più della metà del PIL del Paese). Di questi, 78 miliardi sono interessi sul debito pubblico, che non possono essere tagliati a meno che lo Stato non dichiari fallimento (default). Questo significa che si può attuare un’operazione di spending review solo sulla spesa primaria (ovverosia la spesa corrente al netto degli interessi passivi sul debito), che nel 2013 ammontava a 739 miliardi. Di questa spesa, la voce più cospicua spetta agli enti previdenziali (320 miliardi), seguita da quella delle amministrazioni centrali (190 miliardi) e da quella delle Regioni (138 miliardi, di cui 109 di spesa sanitaria). La spesa dei Comuni ammonta a 61 miliardi (l’8% della spesa totale) mentre le tanto bistrattate Province hanno speso 9 miliardi (l’1% della spesa pubblica totale). I restanti 21 miliardi sono spese di enti classificati dall’ISTAT come “locali”, come università ed enti controllati da Comuni, Province e Regioni.

A partire da questi dati, l’A. comincia a sfatare la leggenda metropolitana secondo cui in Italia sia impossibile tagliare la spesa. Già nel 2013 infatti abbiamo sperimentato una riduzione della spesa pubblica. Qualche dato: fino al 2009 compreso la spesa pubblica è aumentata; dal 2009 al 2013, in termini nominali, quella dei Comuni si è ridotta del 4%, quella delle amministrazioni centrali del 5%, quella delle Regioni (esclusa la sanità) del 21%. Nel comparto del welfare, la sanità si è ridotta del 2%, che non è una riduzione di poco conto poiché in questo comparto l’inflazione dei prodotti sanitari è più alta che in altri settori. L’unica componente di spesa ad essere aumentata è stata quella previdenziale (+10%). Quindi, tenuto conto di queste variazioni, dal 2009 la spesa primaria è aumentata solo dello 0,5%, cioè 4 miliardi. Misurata in termini reali (cioè al netto dell’inflazione), segna invece un calo del 10%, una riduzione non da poco.

La spesa si è ridotta, ma le tasse non sono calate per tre motivi, come ci spiega Cottarelli: i tagli sono stati fatti soprattutto nei ministeri, nelle Province e nei Comuni e sono stati compensati da un aumento della spesa per le pensioni; è stato necessario aumentare le tasse per far fronte a un deficit che nel 2009 era salito oltre i vincoli europei e che, a causa dell’aumento degli interessi, l’Italia stava finanziando a tassi proibitivi; la riduzione consistente del PIL tra il 2009 e il 2013 ha sottratto base imponibile e quindi risorse.

Dopo aver chiarito “chi” spende questi 739 miliardi, l’A. passa a chiarire “in cosa” si spendono, per comprendere meglio quali potrebbero essere i destinatari di una eventuale riduzione della spesa pubblica. In modo forzatamente sintetico, possiamo dire che lo Stato acquista beni e servizi (edifici, computer, ecc.) per circa 169 miliardi; paga gli stipendi dei dipendenti pubblici per circa 165 miliardi e trasferisce soldi a famiglie, imprese ed estero per altri 380 miliardi. Le proposte di revisione della spesa avanzate dall’A. in qualità di Commissario si concentravano su risparmi in ciascuna di queste tre voci, con la consapevolezza che operazioni di efficientamento potrebbero comportare conseguenze non desiderabili, come ad esempio la riduzione del fabbisogno di personale in alcuni comparti del settore pubblico, che però potrebbe essere spostato in altri dove invece si comprano “servizi” (e cioè personale) all’esterno. Un esempio: il servizio di controllo agli accessi al Tribunale di Milano è assicurato (come presumibilmente in altri tribunali) da guardie private piuttosto che da dipendenti della pubblica amministrazione. Il personale in esubero potrebbe essere facilmente reimpiegato, risparmiando l’acquisto di un servizio esterno.

Dopo aver introdotto il lettore alle principali grandezze che compongono la spesa in termini di risorse, dal capitolo 2 al capitolo 13 l’A. fa diversi esempi di gestione di queste risorse erogate dal settore pubblico: l’acquisto di beni e servizi; le auto blu; le spese militari; la pubblica amministrazione; le spese degli enti locali; il costo del lavoro; i costi della politica; le imprese; la spesa sanitaria e quella previdenziale. Per ciascuno di questi comparti, l’ex Commissario alla spending review presenta, alla luce della sua annuale esperienza, dei dati e delle informazioni acquisite, proposte di efficientamento nell’erogazione della spesa e quindi una quantificazione dei risparmi.

Ma tagliare la spesa fa male all’economia? Vuol dire più austerità e meno crescita? Leggendo i dati sulla riduzione della spesa, ci viene legittimo pensare che la poca (o addirittura negativa) crescita registrata in Italia dopo il 2009 potrebbe essere anche imputata alla riduzione in termini reali del 10% della spesa! A queste domande, l’A., ben consapevole del possibile nesso tra austerità e crescita lenta, cerca di rispondere sulla base di alcune considerazioni. Anzitutto non propone un mero confronto tra la spesa pubblica italiana in rapporto al PIL con quella di altri Paesi (come Francia e Germania). Il confronto deve infatti tenere conto del fatto che l’Italia ha un elevatissimo debito pubblico rispetto al PIL (il terzo tra i Paesi avanzati), quindi la sua spesa per interessi è molto più alta di quella degli altri Paesi, fatto che comprime lo spazio per altre forme di spesa. L’A. individua alcuni dati europei di riferimento su cui fare dei confronti. Nonostante i tagli realizzati dal 2010, l’Italia ha ancora un 2% di spesa in più rispetto al PIL (circa 40 miliardi) che non ci possiamo permettere; l’Italia spende ancora “troppo” in quasi tutti i settori, con l’eccezione di cultura e istruzione. Infatti, nelle proposte di revisione della spesa che Cottarelli propone, questi comparti non presentano tagli, anche perché come evidenzia la letteratura economica, la spesa per l’istruzione fa aumentare il reddito di un Paese.

Per concludere, l’A. spiega con chiarezza a cosa dovrebbero servire questi tagli: a ridurre la tassazione, specialmente quella sul lavoro, che in Italia è ben superiore a quella di altri Paesi, per stimolare la crescita dell’occupazione nei settori in cui però deve esistere una domanda di prodotti. Invece, le cose sono andate diversamente, come spiega Cottarelli stesso: «Nel corso del mio lavoro come commissario, in queste diverse occasioni sono state approvate nuove iniziative di spesa, spesso di origine parlamentare, per le quali si prevedeva che il finanziamento sarebbe arrivato dall’attività di Revisione della spesa (senza peraltro richiedere l’opinione di chi, appunto, doveva proporre come ridurla). In altri termini, si finanziavano nuovi esborsi (la cui qualità non era stata vagliata) attraverso futuri tagli non ancora decisi. Nel luglio 2014 ho sollevato dubbi sulla validità di questa pratica in un post pubblicato sul mio blog, post che ha suscitato un certo interesse nei media nazionali» (p. 25). Senza dubbio però il suo lavoro – e questo testo ce lo dimostra – ha avuto il merito di indicare una direzione da seguire per il futuro a politici e amministratori che si dovranno cimentare con l’ardua impresa di razionalizzare la spesa pubblica nostrana.


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