ArticoloRecensioni

Il profeta

Vita di Carlo Maria Martini

Fascicolo: maggio 2013
Il Profeta, nonostante il sottotitolo, non è una biografia lineare di Carlo Maria Martini, anzi, ci troviamo davanti a un libro che ha l’ambizione di «dare un contributo e uno stimolo agli approfondimenti che verranno» (p. 8) su colui che è stato arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002, e al quale almeno duecentomila persone hanno reso omaggio nei tre giorni successivi alla sua morte (31 agosto 2012). Il volume attraverso diciassette capitoli mira a presentare lo stile e i tratti caratteristici dell’azione episcopale di Martini, tra cui l’amore per la Parola, il rapporto con i non credenti, la passione per i giovani, l’attenzione alle situazioni di disagio proprie di Milano e di ogni grande città, il rapporto fondamentale con Gerusalemme, il rapporto con papa Wojtila e l’attenzione alla Chiesa. Tutto è incorniciato da un prologo e da un capitolo conclusivo non numerato dal titolo emblematico «Tutto è compiuto».

Perché, quando è morto il Cardinale, «una moltitudine di persone, in modo inaspettato, in così poco tempo ha dato un segnale tanto forte alla città, alla Chiesa, al mondo», rendendogli omaggio in una lunga e ordinata fila ininterrotta che per tre giorni ha attraversato il centro di Milano (p. 4)? Due caratteristiche di Martini, dice Garzonio, biografo del Cardinale fin dai primi anni del suo episcopato, possono aiutare a rispondere e diventare le chiavi di lettura di queste cinquecento pagine: il suo essere stato profeta e Padre della Chiesa. Tutta la pastorale di Carlo Maria Martini è stata improntata al desiderio di leggere e cercare di interpretare i segni dei tempi: «perché mi si presenta questo fatto concreto (un attentato terroristico, una fabbrica che chiude, un prete che intende lasciare l’abito, un politico che ruba, una coppia che vuole conciliare il proprio amore e la possibilità di decidere quando avere figli e quanti […])? Che cosa vuole dirmi il Signore mettendomi davanti a tali vicende e come pensa che io possa essere testimone della speranza e della fiducia che ha posto in me?» (p. 5) Sono queste le domande che risuonavano in Martini. E da profeta, quale è stato secondo l’A., «Martini si è fatto interprete di questa capacità di dischiudere orizzonti e di liberare la mente che la profezia ha» (pp. 5-6), sempre in un’ottica di speranza e di riconciliazione tra il cielo e la terra. La seconda chiave di lettura è ritenere Martini un padre della Chiesa di oggi, perché «alla maniera di Ambrogio, di Origene, di Basilio, di Gregorio, di Agostino e di uno stuolo di altri Padri dei primi secoli dell’era cristiana l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini ha spezzato il pane della conoscenza biblica per chi già era stato toccato dalla fede e ha incuriosito coloro che non credevano»

(p. 6). Da studioso e amante della Parola di Dio qual era, ha fatto parlare i testi biblici attraverso la «lettura della Parola, approfondimento di ogni lemma, esplorazione dei nessi letterali, interrogativi su come quella pagina può illuminare il presente: nostro, di chi ci sta vicino, del mondo» (ivi).

Nella certezza che «i maestri, quando se ne vanno, trasmettono un testimone» (p. 355), ci pare di poter individuare nel volume tre consegne, espressione della radicalità evangelica dell’Arcivescovo di Milano: «la terapia della Parola» (cap. II), il volto materno della Chiesa (cap. V, «Il dualismo con papa Wojtyla») e l’apertura al mondo nel dialogo con tutti (cap. XIII, «Indovina chi viene a cena» e cap. XIV, «Questa benedetta, maledetta città»).

«Da studioso, docente di critica testuale, la Parola rappresentava la sua propria, specifica competenza. Non avendo esperienza pastorale alcuna, se lo doveva inventare il mestiere di vescovo» (pp. 36-37); ed è forse per questo che sin dai primi momenti della sua presenza a Milano

– Martini scelse di entrare in città compiendo un percorso a piedi con il Vangelo in mano – egli si adoperò affinché «la città prendesse confidenza con il lessico della Parola», a cominciare dalle sue prime due lettere pastorali (La dimensione contemplativa della vita, 1980 e In principio la Parola, 1981) e dalla “Scuola della Parola”, una vera e propria scuola di preghiera rivolta ai giovani, a partire dalla lettura e meditazione di un brano biblico (lectio divina), tenuta dallo stesso Arcivescovo in Duomo: «nata per essere l’appuntamento di una manciata di serate, questa divenne una delle iniziative più fortunate dell’episcopato di Martini, punto di svolta della pastorale ambrosiana di quegli anni» (p. 43).

Una seconda eredità è riconducibile all’immagine di Chiesa «quale il Cardinale negli anni ha ampiamente significato di portarsi nel cuore […]. L’opzione martiniana era sempre più orientata verso una “Chiesa mariana”, che a una “Chiesa petrina”. Una Chiesa che è attenta, che ascolta, che accoglie, che custodisce e genera, che soccorre e nutre attraverso le virtù dell’anima; una Chiesa che ama senza imporre, che è disponibile a sacrificare le istanze dell’Io senza per questo rinunciare mai all’esser vigile, che proclama la propria unicità senza la pretesa di porsi univoca, che semina senza proporsi come prima incombenza di verificare l’entità del raccolto, che suscita senza pretendere di sostituirsi ai disegni imperscrutabili di chi l’ha fondata; una Chiesa che conta sull’affidamento più che sui mezzi umani che da essa provengono e che lei riesce a mettere in campo» (pp. 177-178). Non si tratta di enfatizzare, come spesso hanno fatto i media, un Martini «progressista» in contrapposizione all’allora pontefice Wojtyla, puntando i riflettori sulle loro diversità; e l’Arcivescovo «non perse occasione per cercar di smontare quel dualismo» (p. 104). Si tratta piuttosto di mettere in luce e valorizzare «qualcosa d’altro rispetto all’organizzazione, alle strutture, ai segni e alle manifestazioni del potere» (p. 178), in una posizione feconda di complementarietà tra due modi di essere Chiesa. L’opzione martiniana per il modello «mariano» trova espressione anche nella speranza che potesse crescere il confronto tra tutti i vescovi per sciogliere alcuni nodi disciplinari e dottrinali, che necessitano «di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera» (p. 118).

La terza consegna del «profeta» Martini non poteva che essere frutto della «terapia della Parola» e della sua visione ecclesiale: l’apertura al mondo nel dialogo con tutti, specie gli ultimi e i più lontani. Qui gli esempi sono molteplici e vanno dalla cura dei carcerati – ai quali dedicò un’attenzione costante, considerando il carcere di San Vittore «il cuore della città» (p. 357) – alle prese di posizione per l’accoglienza e l’integrazione sociale degli immigrati, dalla denuncia della dimensione culturale e morale della tossicodipendenza, all’attenzione ai disabili e malati psichici. Nell’ancorare il discorso della carità alla fede, emerge «la stretta relazione che l’Arcivescovo ha instaurato tra l’emergenza del disagio e la necessità di ricompattare la società civile in un approccio complessivo: culturale, etico, morale» (p. 341). Il dialogo con tutti assunse anche la forma della “Cattedra dei non credenti”, «un’iniziativa spericolata» (p. 186), dodici sessioni di incontri (nel 1987, 1990, 1992, 1993, 1996), che possono definirsi «“un esercizio dello spirito”, “un dialogo interiore”, perché ciascuno di noi “ha in sé un non credente e un credente”» (p. 174). Con questa iniziativa «il cardinale restituiva dignità piena all’inquietudine, rendeva la ricerca e il dubbio costitutivi dello stesso vivere nella fede; mettendo “in cattedra” il non credente riconosceva che anch’egli poteva avere qualcosa da dire e da insegnare a chi crede» (p. 175).

Il prendersi cura degli ultimi e l’ascolto del non credente ebbero come sfondo la città di Milano, alla quale il Cardinale si rivolse ogni anno alla vigilia della festa di sant’Ambrogio, il patrono (6 dicembre). Quei discorsi sono diventati un vero e proprio «genere letterario all’interno della pastorale dell’arcivescovo […], capace di coniugare memoria del patrono e incalzante attualità del momento presente, finendo per riproporre nell’immaginario collettivo la figura del vescovo che l’iconografia da secoli attribuisce al patrono: Ambrogio che brandisce lo staffile per riportare la verità e la giustizia al centro della vita cittadina» (p. 346). Basterebbe rileggerli per comprendere l’apporto che la figura carismatica di Martini ha dato alla comunità religiosa e civile di Milano, in anni di «smarrimento diffuso» (p. 347).

«Carlo Maria Martini incominciò il suo episcopato guardando la città in faccia da subito. Lo chiuse ventidue anni più tardi, lasciando ai giovani una consegna, che rilanciava l’intuizione da lui avuta all’inizio, la scelta di entrare a piedi, di percorrere le vie delle sofferenze, delle attese, delle speranze: “Abbiate il coraggio di attraversare la città!”» (p. 331). I giovani sono stati l’investimento più riuscito di Martini: a loro spiegò la Parola, a loro chiese di sporcarsi le mani nella cura degli ultimi (con la lettera pastorale Farsi prossimo del 1985), a loro insegnò a tenere aperte domande inquiete ma feconde.

Quando chiesero a Martini in che modo gli adulti dovrebbero comportarsi con la gioventù per poter tramandare e far rifiorire il cristianesimo, lui rispose: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato. Fa’ sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggila insieme a loro. Abbi profonda fiducia nei giovani, essi risolveranno i problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta più di ogni altra cosa» (Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2010, p. 124). Molto più di una consegna.
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