Il profeta
Vita di Carlo Maria Martini
Il Profeta, nonostante il sottotitolo, non è una biografia
lineare di Carlo Maria Martini, anzi, ci troviamo davanti a un libro che
ha l’ambizione di «dare un contributo e uno stimolo agli
approfondimenti che verranno» (p. 8) su colui che è stato arcivescovo di
Milano dal 1980 al 2002, e al quale almeno duecentomila persone hanno
reso omaggio nei tre giorni successivi alla sua morte (31 agosto 2012).
Il volume attraverso diciassette capitoli mira a presentare lo stile e i
tratti caratteristici dell’azione episcopale di Martini, tra cui
l’amore per la Parola, il rapporto con i non credenti, la passione per i
giovani, l’attenzione alle situazioni di disagio proprie di Milano e di
ogni grande città, il rapporto fondamentale con Gerusalemme, il
rapporto con papa Wojtila e l’attenzione alla Chiesa. Tutto è
incorniciato da un prologo e da un capitolo conclusivo non numerato dal
titolo emblematico «Tutto è compiuto».
Perché, quando è morto il
Cardinale, «una moltitudine di persone, in modo inaspettato, in così
poco tempo ha dato un segnale tanto forte alla città, alla Chiesa, al
mondo», rendendogli omaggio in una lunga e ordinata fila ininterrotta
che per tre giorni ha attraversato il centro di Milano (p. 4)? Due
caratteristiche di Martini, dice Garzonio, biografo del Cardinale fin
dai primi anni del suo episcopato, possono aiutare a rispondere e
diventare le chiavi di lettura di queste cinquecento pagine: il suo
essere stato profeta e Padre della Chiesa. Tutta la pastorale di Carlo
Maria Martini è stata improntata al desiderio di leggere e cercare di
interpretare i segni dei tempi: «perché mi si presenta questo fatto
concreto (un attentato terroristico, una fabbrica che chiude, un prete
che intende lasciare l’abito, un politico che ruba, una coppia che vuole
conciliare il proprio amore e la possibilità di decidere quando avere
figli e quanti […])? Che cosa vuole dirmi il Signore mettendomi davanti a
tali vicende e come pensa che io possa essere testimone della speranza e
della fiducia che ha posto in me?» (p. 5) Sono queste le domande che
risuonavano in Martini. E da profeta, quale è stato secondo l’A.,
«Martini si è fatto interprete di questa capacità di dischiudere
orizzonti e di liberare la mente che la profezia ha» (pp. 5-6), sempre
in un’ottica di speranza e di riconciliazione tra il cielo e la terra.
La seconda chiave di lettura è ritenere Martini un padre della Chiesa di
oggi, perché «alla maniera di Ambrogio, di Origene, di Basilio, di
Gregorio, di Agostino e di uno stuolo di altri Padri dei primi secoli
dell’era cristiana l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini ha
spezzato il pane della conoscenza biblica per chi già era stato toccato
dalla fede e ha incuriosito coloro che non credevano»
(p. 6). Da
studioso e amante della Parola di Dio qual era, ha fatto parlare i
testi biblici attraverso la «lettura della Parola, approfondimento di
ogni lemma, esplorazione dei nessi letterali, interrogativi su come
quella pagina può illuminare il presente: nostro, di chi ci sta vicino,
del mondo» (ivi).
Nella certezza che «i maestri, quando
se ne vanno, trasmettono un testimone» (p. 355), ci pare di poter
individuare nel volume tre consegne, espressione della radicalità
evangelica dell’Arcivescovo di Milano: «la terapia della Parola» (cap.
II), il volto materno della Chiesa (cap. V, «Il dualismo con papa
Wojtyla») e l’apertura al mondo nel dialogo con tutti (cap. XIII,
«Indovina chi viene a cena» e cap. XIV, «Questa benedetta, maledetta
città»).
«Da studioso, docente di critica testuale, la Parola
rappresentava la sua propria, specifica competenza. Non avendo
esperienza pastorale alcuna, se lo doveva inventare il mestiere di
vescovo» (pp. 36-37); ed è forse per questo che sin dai primi momenti
della sua presenza a Milano
– Martini scelse di entrare in città
compiendo un percorso a piedi con il Vangelo in mano – egli si adoperò
affinché «la città prendesse confidenza con il lessico della Parola», a
cominciare dalle sue prime due lettere pastorali (La dimensione contemplativa della vita, 1980 e In principio la Parola,
1981) e dalla “Scuola della Parola”, una vera e propria scuola di
preghiera rivolta ai giovani, a partire dalla lettura e meditazione di
un brano biblico (lectio divina), tenuta dallo stesso Arcivescovo
in Duomo: «nata per essere l’appuntamento di una manciata di serate,
questa divenne una delle iniziative più fortunate dell’episcopato di
Martini, punto di svolta della pastorale ambrosiana di quegli anni» (p.
43).
Una seconda eredità è riconducibile all’immagine di Chiesa
«quale il Cardinale negli anni ha ampiamente significato di portarsi
nel cuore […]. L’opzione martiniana era sempre più orientata verso una
“Chiesa mariana”, che a una “Chiesa petrina”. Una Chiesa che è attenta,
che ascolta, che accoglie, che custodisce e genera, che soccorre e nutre
attraverso le virtù dell’anima; una Chiesa che ama senza imporre, che è
disponibile a sacrificare le istanze dell’Io senza per questo
rinunciare mai all’esser vigile, che proclama la propria unicità senza
la pretesa di porsi univoca, che semina senza proporsi come prima
incombenza di verificare l’entità del raccolto, che suscita senza
pretendere di sostituirsi ai disegni imperscrutabili di chi l’ha
fondata; una Chiesa che conta sull’affidamento più che sui mezzi umani
che da essa provengono e che lei riesce a mettere in campo» (pp.
177-178). Non si tratta di enfatizzare, come spesso hanno fatto i media,
un Martini «progressista» in contrapposizione all’allora pontefice
Wojtyla, puntando i riflettori sulle loro diversità; e l’Arcivescovo
«non perse occasione per cercar di smontare quel dualismo» (p. 104). Si
tratta piuttosto di mettere in luce e valorizzare «qualcosa d’altro
rispetto all’organizzazione, alle strutture, ai segni e alle
manifestazioni del potere» (p. 178), in una posizione feconda di
complementarietà tra due modi di essere Chiesa. L’opzione martiniana per
il modello «mariano» trova espressione anche nella speranza che potesse
crescere il confronto tra tutti i vescovi per sciogliere alcuni nodi
disciplinari e dottrinali, che necessitano «di uno strumento collegiale
più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con
libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto
dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità
intera» (p. 118).
La terza consegna del «profeta» Martini non
poteva che essere frutto della «terapia della Parola» e della sua
visione ecclesiale: l’apertura al mondo nel dialogo con tutti, specie
gli ultimi e i più lontani. Qui gli esempi sono molteplici e vanno dalla
cura dei carcerati – ai quali dedicò un’attenzione costante,
considerando il carcere di San Vittore «il cuore della città» (p. 357) –
alle prese di posizione per l’accoglienza e l’integrazione sociale
degli immigrati, dalla denuncia della dimensione culturale e morale
della tossicodipendenza, all’attenzione ai disabili e malati psichici.
Nell’ancorare il discorso della carità alla fede, emerge «la stretta
relazione che l’Arcivescovo ha instaurato tra l’emergenza del disagio e
la necessità di ricompattare la società civile in un approccio
complessivo: culturale, etico, morale» (p. 341). Il dialogo con tutti
assunse anche la forma della “Cattedra dei non credenti”, «un’iniziativa
spericolata» (p. 186), dodici sessioni di incontri (nel 1987, 1990,
1992, 1993, 1996), che possono definirsi «“un esercizio dello spirito”,
“un dialogo interiore”, perché ciascuno di noi “ha in sé un non credente
e un credente”» (p. 174). Con questa iniziativa «il cardinale
restituiva dignità piena all’inquietudine, rendeva la ricerca e il
dubbio costitutivi dello stesso vivere nella fede; mettendo “in
cattedra” il non credente riconosceva che anch’egli poteva avere
qualcosa da dire e da insegnare a chi crede» (p. 175).
Il
prendersi cura degli ultimi e l’ascolto del non credente ebbero come
sfondo la città di Milano, alla quale il Cardinale si rivolse ogni anno
alla vigilia della festa di sant’Ambrogio, il patrono (6 dicembre). Quei
discorsi sono diventati un vero e proprio «genere letterario
all’interno della pastorale dell’arcivescovo […], capace di coniugare
memoria del patrono e incalzante attualità del momento presente, finendo
per riproporre nell’immaginario collettivo la figura del vescovo che
l’iconografia da secoli attribuisce al patrono: Ambrogio che brandisce
lo staffile per riportare la verità e la giustizia al centro della vita
cittadina» (p. 346). Basterebbe rileggerli per comprendere l’apporto che
la figura carismatica di Martini ha dato alla comunità religiosa e
civile di Milano, in anni di «smarrimento diffuso» (p. 347).
«Carlo
Maria Martini incominciò il suo episcopato guardando la città in faccia
da subito. Lo chiuse ventidue anni più tardi, lasciando ai giovani una
consegna, che rilanciava l’intuizione da lui avuta all’inizio, la scelta
di entrare a piedi, di percorrere le vie delle sofferenze, delle
attese, delle speranze: “Abbiate il coraggio di attraversare la città!”»
(p. 331). I giovani sono stati l’investimento più riuscito di Martini: a
loro spiegò la Parola, a loro chiese di sporcarsi le mani nella cura
degli ultimi (con la lettera pastorale Farsi prossimo del 1985), a loro insegnò a tenere aperte domande inquiete ma feconde.
Quando
chiesero a Martini in che modo gli adulti dovrebbero comportarsi con la
gioventù per poter tramandare e far rifiorire il cristianesimo, lui
rispose: «Consegna ai tuoi figli un mondo che non sia rovinato. Fa’ sì
che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggila
insieme a loro. Abbi profonda fiducia nei giovani, essi risolveranno i
problemi. Non dimenticare di dare loro anche dei limiti. Impareranno a
sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta più di
ogni altra cosa» (Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2010, p. 124). Molto più di una consegna.
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