Il benicomunismo e i suoi nemici
Ritornate al centro dell’attenzione da qualche decennio, la tematizzazione delle peculiarità dei beni comuni e la costruzione di un adeguato assetto giuridico di questi ultimi sono spesso considerate una valida via – se non l’unica possibile – per far uscire il nostro diritto e la nostra economia dal sostrato culturale e ideologico da cui deriva anche la prolungata crisi che stiamo attraversando. Dal mondo accademico dei Paesi anglosassoni – dove i commons (come sono chiamati in inglese i beni comuni) sono stati riscoperti soprattutto grazie agli studi di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia nel 2009 – l’interesse nei loro confronti si è ben presto diffuso in altri Paesi e in altri ambiti, come quello della società civile e dell’amministrazione pubblica. Si è anche ampliato il numero dei beni annoverati tra quelli comuni. Non si tratta più solo delle terre di uso collettivo, disciplinate in Italia dagli usi civici, ma, solo per citare qualche esempio, dell’aria, dell’acqua, delle foreste, del clima, così come della conoscenza, della rete internet o dei programmi open source.
Anche in Italia si è registrata una nuova “primavera” dei beni comuni. I referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua hanno costituito senza dubbio il momento più importante del dibattito nazionale su che cosa siano i beni comuni e quali prospettive aprano per il nostro Paese. Si è trattato di un confronto ampio, proseguito anche dopo l’esito positivo del voto referendario, con prese di posizione di diverso segno. Lo testimonia la nascita di un neologismo, “benicomunismo”, utilizzato da alcuni per denunciare l’esistenza di una dimensione ideologica in alcuni interventi a favore dei beni comuni.
A qualche anno dai referendum del 2011 torna a far sentire la sua voce uno dei protagonisti di quel dibattito e strenuo sostenitore della bontà dei beni comuni: Ugo Mattei, docente di Diritto civile a Torino e di Diritto internazionale e comparato alla University of California a San Francisco, già autore di Beni comuni. Un manifesto (Laterza, Roma-Bari 2011), membro della Commissione Rodotà (2007-2008) – incaricata di proporre una riforma delle norme del Codice civile in materia di beni pubblici –, e infine tra i redattori dei quesiti referendari sull’acqua.
Il titolo scelto dall’A. – Il benicomunismo e i suoi nemici – è rivelatore dell’approccio adottato. Il neologismo, coniato come espressione di una critica di fondo, non solo non è rifiutato, ma è assunto e rivendicato come elemento identificativo della proposta avanzata. Esso viene adottato per indicare una maniera di concepire e declinare i rapporti sociali, economici e culturali alternativa rispetto ad altri due “ismi”: capitalismo e statalismo. Facendo leva sulla valorizzazione dei beni comuni, si intende configurare un nuovo sistema, improntato alla partecipazione, che prende le distanze tanto dal capitalismo di matrice liberale quanto da una presenza pervasiva del settore pubblico: «il benicomunismo evoca una critica radicale al modello neoliberale dominante, articolata in chiave di beni comuni e dunque di inclusione e di diffusione del potere» (p. 3), che si contrappone alla proprietà privata e alla sovranità statale, che «sono l’esito istituzionale dello stesso progetto di concentrazione del potere ed esclusione» (p. 4).
Nel suo pamphlet, l’A. si confronta con i vari argomenti critici avanzati contro il benicomunismo, «anche con i meno robusti», con l’intento di metterne in evidenza al contrario la ricchezza «di sfumature teoriche» e la capacità «di incidere profondamente in pochi anni nel tessuto giuridico» (p. 15). Non ci troviamo di fronte, quindi, a un trattato ordinato ed esaustivo, ma a un testo agile, scritto con l’intenzione di contribuire a un dibattito in corso.
I tre capitoli che lo compongono costituiscono un percorso illustrativo della proposta benicomunista. Il punto di partenza è dato da una breve ricostruzione delle tappe dell’oblio dei beni comuni – o piuttosto della loro «soppressione, prodotta dalla tenaglia micidiale tra statualità sovrana e appropriazione privata del capitale» (p. 19) – e della successiva riscoperta. Si passa poi a considerare alcuni termini limitrofi (per esempio comunità o bene comune) e ambiti (il lavoro, l’ambiente, l’animalismo) che meritano un’indagine supplementare. Infine, l’attenzione si concentra sulla dimensione più squisitamente politica dei beni comuni, riflettendo sull’apporto che essi e le pratiche della loro gestione possono dare per ridefinire l’assetto socioeconomico attuale e intervenire «sui processi politici reali» (p. 67). In questo percorso varie volte si fa riferimento ad alcune esperienze internazionali (la “guerra dell’acqua” di Cochabamba in Bolivia) o italiane (l’occupazione del Teatro Valle a Roma e l’Azienda speciale ABC Napoli, che gestisce le risorse idriche di alcune Province campane), che rappresentano casi concreti in cui il benicomunismo è passato dal piano teorico a quello pratico.
Per l’impostazione adottata e i contenuti presentati, il libro offre numerosi spunti per approfondire il confronto sui beni comuni. Di seguito ci limitiamo a prendere in considerazione due aspetti, ritenuti di particolare rilevanza per il futuro.
Il primo riguarda la definizione dei beni comuni: una questione cruciale per determinarne il tipo di gestione economica e di regolamentazione giuridica. In diverse parti del libro l’A. menziona gli elementi caratterizzanti i beni comuni. Essi sono presentati come gli «oggetti materiali o immateriali, che producono le utilità necessarie per la vita di tutti. […] consumati o creati insieme […] sono necessari tanto per la nuda vita e per la sua riproduzione, quanto per un’esistenza libera e dignitosa di ogni individuo di ciascuna specie. Una volta riconosciuti e definiti come comuni, appartenenti cioè a tutti, questi beni si negano all’appropriazione privata» (p. 17). Riprendendo i lavori della Commissione Rodotà, si richiama la possibilità che i titolari possano essere tanto privati quanto pubblici, col vincolo che producano «“utilità” funzionali alla soddisfazione di bisogni fondamentali della persona» e siano «governati “anche nell’interesse delle generazioni future”» (p. 92). Imprescindibile è poi il legame con la comunità di riferimento nel governo e godimento di un bene comune. Un ultimo e interessante elemento da segnalare è il superamento di una visione frammentata: «distinguere i beni comuni in naturali e culturali è conseguenza della separazione dell’umano dal naturale. […] Non ci sono beni comuni separabili dall’uomo come specie, perché la natura altro non è che una grande rete di interrelazioni ecologiche (la rete della vita) e non un casuale deposito di oggetti materiali separabili uno dall’altro che il soggetto umano conosce» (pp. 39-40).
Alcuni tra gli elementi evocati, come il rilievo della dimensione comunitaria o il ripensamento del rapporto tra essere umano e natura, sono particolarmente interessanti per le conseguenze che ne possono derivare, anche alla luce di altri dibattiti in corso come ad esempio quello in tema di ambiente. In forza di essi si potrebbe procedere a una nuova declinazione della sfera individuale (in primis della proprietà privata), delle relazioni sociali e degli assetti di governance in termini di partecipazione, cooperazione e corresponsabilità. Affinché ciò sia possibile è, però, necessario tenere ben presenti le differenze che esistono tra i beni che sono generalmente ricompresi nella categoria di “comuni”: un pascolo e l’aria sono annoverati tra i beni comuni, ma è evidente che il primo diviene tale solo nel momento in cui la comunità di riferimento prende una decisione in tal senso, mentre non è così per la seconda. Bisogna cioè prendere atto che i beni comuni possono differire per la procedura con cui sono riconosciuti tali, per il loro regime di accesso e le modalità di fruizione, gestione e tutela. Quanto più la definizione adottata integra gli apporti delle varie scienze sociali (diritto, economia, sociologia), che permettono di riconoscere le differenze senza appiattirle, tanto più sarà possibile procedere a disciplinarli in un modo che non si riveli velleitario, e di fatto senza alcuna incidenza pratica reale, a causa di previsioni troppo ampie e generali. Se non fosse così si rischia di frustrare le attese riposte nei beni comuni.
In connessione con quanto appena detto vi è un secondo spunto prezioso che ricorre più volte nel testo: la valenza innovativa del benicomunismo va considerata in una prospettiva temporale, distinguendo la situazione odierna e quella futura da costruire. La coppia “costituito-costituente” permette di esprimere questa tensione dinamica: «il benicomunismo si articola intanto in una dimensione giuridico-amministrativa che si svolge sul terreno costituito, aprendosi alla sperimentazione istituzionale (regolamenti di condivisione dei beni comuni; inserzione di momenti partecipativi nella struttura istituzionale delle aziende pubbliche o private; tutela legislativa o giurisprudenziale dei beni comuni…), per conquistare credibilità ed egemonia da spendersi sul terreno di una trasformazione costituente» (p. 6). Un progetto politico costituente che non deve cadere nella trappola di idolatrare il presente ritenendolo ideale né in quella di rifugiarsi nell’utopia, concependo la «lotta in modo totalmente dissociato dalle circostanze storiche in cui ci si trova» (p. 67). L’adozione di un approccio realistico porta l’A. a riconoscere che su molti temi sia da ricercare il dialogo con la Chiesa di papa Francesco, ritenendo che «soltanto un’alleanza forte e leale tra benicomunisti e quel mondo cattolico che si riconosce nel ministero francescano, nella gioia per la sobrietà e nell’emancipazione del farsi bene comune possa determinare l’agognata inversione di rotta» (p. 69). Questa posizione si accompagna poi con l’accettazione del concetto di bene comune, presente nella dottrina sociale della Chiesa, se inteso come visione di un interesse pubblico che limita il privatismo. Uno spunto di sicuro importante, che può condurre a un confronto tanto più proficuo quanto più sarà animato dall’impegno di conoscere e comprendere le posizioni altrui, andando oltre eventuali pregiudizi o letture datate.
Sulle vie possibili per transitare dalla dimensione costituita a quella costituente, l’A. si limita in gran parte a fare riferimento alle esperienze di Roma e Napoli già ricordate. È invece più chiaro sull’esito atteso del progetto politico del benicomunismo: esso «prefigura, coerentemente con il proprio suffisso, una società senza Stato, senza rendita proprietaria e senza classi» (p. 6). Pur non potendoci addentrare nella questione, è legittimo porsi qualche interrogativo sull’approdo individuato. È realistico e non utopico ipotizzare di sostituire l’attuale sistema socioeconomico con uno imperniato unicamente sui beni comuni? Non si potrebbe, invece, immaginare un modello che si fondi su tre elementi (proprietà comune, pubblica e privata), in grado di concorrere, ciascuno secondo le proprie caratteristiche, a costruire una società più giusta ed equa? In questo senso, la prospettiva dei beni comuni potrebbe fin da ora costituire uno sprone fondamentale per ridare pregnanza alle clausole che rinviano all’utilità generale e sociale nelle norme costituzionali sull’iniziativa economica e sulla proprietà privata (artt. 41-44 Cost.). Questi articoli potrebbero effettivamente riorientare l’attività economica privata verso una finalità di carattere generale, che tenga in debito conto il bene dell’intera comunità. Discorso analogo potrebbe essere fatto per la gestione pubblica dei beni. Muovendosi in questa direzione verrebbe infranto il duopolio pubblico-privato affermatosi con il liberalismo e, in questo modo, si procederebbe a una nuova configurazione del modo di concepire e di esercitare la proprietà sia pubblica sia privata. Un altro capitolo su cui sarà necessario soffermarsi maggiormente è quello della gestione delle situazioni in cui la fruizione o la tutela di un bene comune ne danneggi un altro. In questi casi, come regolare gli eventuali conflitti? Come assicurare che i fini perseguiti dalle singole comunità di riferimento non siano divergenti tra loro o in contrasto con quello più ampio dell’intera collettività? Quali vie seguire per superare i possibili conflitti in vista del perseguimento armonico di un fine più generale e condiviso?
Questi interrogativi non fanno altro che confermare quanto sia promettente il tema dei beni comuni, al di là di approcci ideologici, e come sia ancora necessario esplorarne appieno potenzialità e limiti. Il contributo di Mattei è allora quanto mai opportuno per rilanciare il dibattito, grazie all’assunzione di posizioni nette, che favoriscono lo sviluppo di una riflessione aperta, capace di spingersi su terreni inusuali.
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