Espulsioni
Brutalità e complessità nell’economia globale
Selettiva, feroce, brutale. Ed espulsiva. Nell’Occidente sviluppato quanto nel “Sud del Mondo”, con tratti diversi ma dentro un solco comune e in una logica di sistema che va oltre i caratteri e le specificità locali, l’economia globale del Terzo millennio si presenta con questo poco rassicurante volto secondo Saskia Sassen, sociologa ed economista americana, che aggiunge qui un altro importante tassello alla sua costruzione teorica, iniziata ormai un ventennio fa con l’elaborazione del concetto di “città globali” (spazi urbani strategici per lo svolgimento di funzioni economiche avanzate all’interno di una rete che attraversa i vecchi discrimini fra Nord e Sud, fra Oriente e Occidente).
Sul piano metodologico l’A. si colloca lungo quello che lei stessa definisce come il «margine sistemico», il crinale cioè dove assumono forme estreme tendenze che diversamente passerebbero inosservate agli analisti. Partendo di qui, Sassen conduce un’indagine su vasta scala che dissoda a fondo i terreni dell’economia e della finanza ma scandaglia anche i fondali meno noti – e a tutta prima difficilmente correlabili – dell’indiscriminato sfruttamento della biosfera e della crescita/privatizzazione dei sistemi carcerari occidentali. Sposta così l’attenzione dal tema della crescita della disuguaglianza a quello dell’espulsione. Un fenomeno sviluppatosi a partire dagli anni ’80 del Novecento e che riguarda anzitutto i Paesi in via di sviluppo, sempre più vittime di spoliazioni sul piano economico e delle risorse naturali: vuoi quali fornitori di manodopera a basso costo e luoghi prescelti per l’outsourcing dalle grandi multinazionali, vuoi con le acquisizioni di terra finalizzate a soddisfare la crescente domanda di raccolti industriali e il relativo impoverimento delle popolazioni locali, “sfrattate” dalle aree rurali e costrette alla fuga verso le periferie urbane degradate, quando non obbligate all’emigrazione. Ma è un fenomeno che tocca nel vivo anche i Paesi ricchi, dove emergono con forza la graduale riduzione del ceto medio, l’aumento del numero di disoccupati e di lavoratori a basso reddito tagliati fuori dai sistemi di welfare State e l’impennarsi della popolazione carceraria, epifenomeno dell’impoverimento e della emarginazione.
Il volume si sviluppa su quattro capitoli. Il primo («Le economie si contraggono, le espulsioni aumentano») getta le fondamenta di tutta la riflessione teorica della sociologa americana, che vi analizza le logiche di fondo dell’economia globale emerse negli ultimi due decenni del Novecento, allorché sarebbero mutati i meccanismi tradizionali dell’accumulazione originaria sotto la spinta delle «formazioni predatorie», vale a dire «una combinazione di élite e capacità sistemiche, il cui fondamentale fattore abilitante è la finanza, che spinge il sistema in direzione di una concentrazione sempre più acuta» (p. 20). Si sarebbe cioè verificata una profonda rottura storica rispetto al secondo dopoguerra, quando ancora la logica che governava l’economia dei Paesi capitalisti e – in modo diverso – anche di quelli comunisti era di tipo inclusivo, aveva effetti seppur parzialmente redistributivi e puntava alla riduzione progressiva delle disuguaglianze.
La nuova tendenza espulsiva, invece, è talmente forte da ridefinire, di fatto, gli spazi stessi dell’economia, contraendola. È quanto sta accadendo, ad esempio, nell’Unione Europea. Qui, dopo la crisi finanziaria esplosa nel 2008 e concretizzatasi drammaticamente nel fenomeno dell’espropriazione della casa di milioni di proprietari non più in grado di pagare il mutuo (le cosiddette foreclosures che hanno piagato Grecia, Spagna e Portogallo), poveri e disoccupati ma anche ex componenti della borghesia commerciale e della piccola imprenditoria falliti e costretti a emigrare stanno scomparendo sotto la spinta delle politiche di austerity dettate ai Governi dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale (FMI). Si registra così il paradosso, verificatosi recentemente in più di un caso, di ritrovate seppur modeste crescite di PIL, in assenza di benefici per la popolazione.
L’A. sfiora soltanto il tema dei rifugiati e degli sfollati, che avrebbe forse meritato più spazio tra le forme di espulsione, anche alla luce della recente e clamorosa recrudescenza del fenomeno che, seppur legato a fattori di ordine bellico e politico-religioso piuttosto che ai disastri ambientali ricordati da Sassen, non pare certo alieno da dinamiche di matrice schiettamente economica.
La studiosa dedica invece molte pagine all’evoluzione del sistema penale, in primis quello degli USA, partendo dal presupposto che «le popolazioni carcerarie sono in gran parte composte di individui che non hanno lavoro e, dati i tempi, sono destinati a restarne per sempre privi» (p. 73) e puntando con forza il dito contro il processo di privatizzazione delle prigioni, che ha introdotto la logica del profitto nel sistema e messo in secondo piano il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti.
Nel secondo capitolo («Il nuovo mercato globale della terra») il focus dell’indagine si sposta sulle acquisizioni di terra su vasta scala (il land grabbing), un fenomeno non nuovo, ma in netta crescita a livello mondiale che lascia, secondo l’A., «un’enorme impronta globale, segnata da un gran numero di espulsioni di contadini e di piccole comunità di villaggio, e dai livelli crescenti di tossicità della terra e dell’acqua nelle zone circostanti le piantagioni realizzate sulla terra acquisita» (p. 92). Sassen dimostra come tale fenomeno abbia portato la fame in zone che non ne avevano mai sofferto, stravolgendo colture tradizionali per lasciare il posto a coltivazioni a uso industriale, destinate ad alimentare l’esportazione con pochi o nulli vantaggi per le popolazioni locali, trattandosi di attività in capo quasi esclusivamente a grosse multinazionali sganciate dal contesto territoriale.
Sull’impoverimento dei Paesi del Sud del mondo hanno poi pesato non poco le dure politiche di rientro del debito (crescente) imposte da FMI, OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e Banca mondiale, incapaci di prevedere le conseguenze di lungo periodo delle loro direttive. «Nei Paesi poveri sottoposti al regime di ristrutturazione lanciato negli anni ’80 – scrive Sassen – è aumentata, rispetto a vent’anni fa, la proporzione di popolazione che vive in condizioni di povertà disperata e sono diminuite le probabilità di raggiungere livelli di consumo tipici dell’economia “moderna”; si palesa cioè una dinamica che corrisponde a certi sviluppi che i verificano parallelamente nel Nord globale […]. Il risultato è che in molti casi le rimesse degli immigrati a basso reddito oggi superano gli aiuti esteri forniti dai ricchi Paesi donatori. Inoltre, a partire dai tardi anni ’90, ONG e organizzazioni filantropiche forniscono una proporzione crescente di aiuti esteri, con la conseguenza di rendere ancora più marginale il ruolo che i Governi possono giocare nello sviluppo. Un esito estremo è costituito dai Governi di fatto ridotti allo stato di élite predatorie» (pp. 100-101).
Il terzo capitolo («La finanza e le sue capacità: dalla logica sistemica alla crisi») è un duro j’accuse contro la trasformazione del sistema finanziario mondiale, via via sganciatosi dalle dinamiche reali dell’economia e diversificatosi dalla più tradizionale attività bancaria di sostegno al credito d’impresa e al risparmio, attraverso la cartolarizzazione di strumenti come i derivati, il cui volume è cresciuto in modo impressionante nell’ultimo quindicennio. L’A. si sofferma in particolare sulle «ultime due frontiere dell’estrazione di valore finanziario» (p. 150): il già citato caso dei mutui subprime e il salvataggio di multinazionali e istituti bancari con il denaro – vero e non con «costrutti finanziari» (ivi) – dei contribuenti. L’aver introdotto strumenti quali i credit default swaps, utilizzati a guisa di assicurazione sui mutui ipotecari concessi ai piccoli proprietari senza essere in alcun modo coperti da riserve di denaro, bensì poggiati su veri e propri “castelli” finanziari, ha gettato sul lastrico e in molti casi posto ai margini quando non espulso dal sistema economico milioni di persone nei Paesi occidentali.
Sotto un titolo a effetto («Terre morte, acque morte») il quarto capitolo chiude il volume con un’articolata indagine sulle pratiche di “aggressione” alla biosfera condotte a più latitudini e in diversi ambiti (agricolo, industriale, estrattivo) dall’uomo con il sostegno delle più recenti innovazioni tecnologiche. Si tratta di pratiche che hanno diffusione globale e che impattano in modo pesantissimo sull’ambiente, sia in termini d’inquinamento di terra e acqua – provocando masse enormi di sfollati (800 milioni di persone già coinvolte) – sia in termini d’incremento delle emissioni in atmosfera e, dunque, nel medio-lungo periodo, di surriscaldamento del pianeta. Non vengono espulse solo le persone, ma interi segmenti della biosfera, tramutati per l’appunto in «terre e acque morte».
Circa la capacità di risposta della comunità internazionale, le previsioni della studiosa non sono rassicuranti: pur ammettendo la possibilità che «qualche forma di organizzazione politica ed economica possa prevenire, almeno in parte, questa distruzione» (p. 226), essa fa notare il forte scarto – peraltro confermato dai timidi esiti del recente vertice di Parigi sul clima – fra le misure messe in campo e la scala effettiva della distruzione in atto.
È tuttavia decisivo, e in tal senso Sassen invita a valutare il “peso” del suo lavoro, iniziare ad affrontare euristicamente il concetto delle espulsioni. «Gli spazi degli espulsi – conclude la ricercatrice – esigono con forza di essere riconosciuti sul piano concettuale. Sono tanti, stanno crescendo e vanno diversificandosi. Sono realtà concettualmente sotterranee che devono essere portate alla luce. Sono potenzialmente i nuovi spazi in cui agire, in cui creare economie locali, nuove storie, nuovi modi di appartenenza» (p. 238).
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