Sono centinaia, forse migliaia, i giovani francesi partiti
per combattere in Siria e in Iraq nelle milizie integraliste (Isis,
e non solo). Così come cittadini francesi sono diversi dei terroristi protagonisti
dei fatti che hanno insanguinato il Paese negli ultimi mesi, dalla strage di Charlie Hebdo ai drammatici eventi di
venerdì scorso, sempre a Parigi.
È un fenomeno che, nonostante i cliché con cui i mass media
spesso raccontano il fenomeno, non riguarda più solo i giovani musulmani cresciuti
nelle periferie ed esclusi dalla società, ma comprende un numero crescente
di giovani uomini e donne del ceto medio. Quali motivazioni li spingono ad
aderire al jihadismo? Quali critiche sono implicitamente mosse alla società
occidentale? Che cosa si cela dietro l’immaginario idealizzato del martire che
muore per la giusta causa? Sono domande a cui risponde Farad Khosrokhavar, sociologo
e accademico iraniano, dal 1998 direttore dell’École des hautes études en
sciences sociales (Ehess) di Parigi, in un articolo in via di pubblicazione sul
numero di dicembre di Aggiornamenti
Sociali (articolo uscito anche in Francia sulla rivista dei gesuiti Etudes). Qui ne anticipiamo alcuni
passaggi (per ricevere il numero di dicembre, puoi abbonarti seguendo questo
link).
ll jihadismo fin qui noto nasce negli anni ’70, quando in
diversi Paesi le posizioni tenute da alcuni musulmani si radicalizzano e si
iniziano a organizzare attentati per lottare contro l’eresia e l’infedeltà (kufr) e per denunciare gli atti di
profanazione dell’islam. Diversi jihadisti sono cresciuti in Europa, spesso
sono di origine musulmana, ma nel tempo è cresciuto il numero dei convertiti
all’islam. Dall’inizio della guerra civile in Siria, però, sta prendendo piede
una nuova forma di jihadismo, i cui membri hanno caratteristiche diverse da
quelli del passato. (...)
Chi sono questi nuovi jihadisti? Dopo il 2013, in Europa si
possono individuare tre categorie di islamici radicali, accomunati dal fatto di
essere “terroristi domestici”, cioè giovani cresciuti ed educati nei Paesi
europei: i giovani désaffiliés delle periferie; quelli appartenenti al ceto
medio e le giovani donne.
L’islam radicale,
risposta violenta all’esclusione sociale
Un elemento centrale caratterizza la mentalità dei giovani désaffiliés
che aderiscono all’islam radicale: l’odio verso una società che ritengono
profondamente ingiusta nei loro confronti. Vivono l’essere esclusi come un
evento insormontabile, uno stigma impresso nei loro volti, nel loro linguaggio
e accento, nella postura del loro corpo, percepita come minacciosa dagli altri.
La frattura con la società si manifesta nel rifiuto delle divise (persino
quella del vigile del fuoco), ritenute espressione di un ordine repressivo. La
loro identità si esprime nell’antagonismo verso la società degli “inclusi”,
composta non solo dal francese gaulois, le cui origini risalgono ai Galli, ma
anche da quello di origine nordafricana che è riuscito a integrarsi.
Stigmatizzati agli occhi degli altri, provano un profondo senso di indegnità.
Tutto ciò si traduce in un’aggressività che si scatena facilmente non solo
verso gli esterni, ma anche e spesso contro i membri della propria famiglia, in
particolare i più giovani, come la sorella minore che osa uscire con un
ragazzo.
La periferia-ghetto in cui vivono si trasforma in una
prigione interiore. Questi giovani mutano il disprezzo di se stessi in odio
verso gli altri e lo sguardo negativo degli altri in un’immagine degradante di
sé, manifestando la loro ribellione con azioni negative, piuttosto che cercando
di denunciare il razzismo impegnandosi a livello sociale. Rinchiusi nel loro
quartiere o addirittura in pochi isolati, questi giovani esclusi trovano una
via di uscita al loro malessere nella delinquenza e nella ricerca di denaro
facile per vivere secondo il modello sognato del ceto medio. A volte riescono a
raggiungere uno stile di vita anche più elevato, quando entrano in possesso di
somme di denaro più o meno importanti che sperperano poi con i loro amici,
pronti a tornare a delinquere fino a divenire veri e propri criminali. Il male
di cui più soffrono è il vittimismo, insieme alla convinzione che delinquere
sia l’unica strada possibile per uscire dall’esclusione, dato che, secondo
loro, la società preclude loro ogni altra possibilità.
La delinquenza ha l’effetto di calmare l’odio nutrito verso
la società, perché assicura per un breve tempo una certa agiatezza materiale,
sebbene seguita dalla dilapidazione dei beni illegalmente acquisiti, ma per una
piccola minoranza questo non è più sufficiente. Si avverte il bisogno di
un’affermazione della propria identità che comprenda il recupero della dignità
perduta e la volontà di attestare la propria superiorità sugli altri, mettendo
fine al disprezzo subito. La trasformazione dell’odio in jihadismo sacralizza
la loro rabbia: il disagio vissuto è superato grazie all’adesione a una visione
che rende loro “cavalieri della fede” e gli altri “infedeli”, indegni di
esistere. Si compie così un cambio esistenziale: il sé diviene puro e l’altro
impuro. L’islamismo radicale opera un’inversione magica, trasformando il
disprezzo di sé nel disprezzo per l’altro, la mancanza di dignità nella propria
sacralizzazione a scapito dell’altro.
In tutto questo i media svolgono un ruolo fondamentale. Il
jihadismo implica infatti la combinazione della violenza con una copertura
mediatica che rende il giovane “cavaliere della fede” una star mondiale di
azioni scellerate. Maggiore è lo spazio, anche postumo, consacratogli dai mezzi
di comunicazione, più il giovane jihadista è orgoglioso di incarnare i valori
ultimi di una fede il cui scopo è la trasformazione del disprezzo di sé in odio
dell’altro e l’indegnità in una forma superiore di santità. (...)
Un ultimo fatto rafforza nell’aspirante jihadista la
convinzione che la causa difesa sia legittima: il viaggio iniziatico in un
Paese del Medio Oriente teatro della “guerra santa”. (...) Nella maggior parte
dei casi, il viaggio iniziatico conferma il giovane jihadista nella sua nuova
identità, rinviandolo, in modo mitico, alle società musulmane, di cui tuttavia
non parla la lingua né condivide i costumi. Durante il viaggio impara a usare
le armi e, al contempo, diviene “straniero” alla propria società. Apprende
soprattutto a diventare “crudele”, a giustiziare in modo professionale e senza
scrupoli ostaggi o persone che lui stesso ha incriminato (poliziotti e
militari, ebrei, “cattivi musulmani”, ecc.). In breve diviene un vero
combattente agguerrito del jihad iperbolico, che non tentenna davanti a nessun
ostacolo di ordine morale quando si tratta di uccidere i “colpevoli”. (...)
I nuovi jihadisti del
ceto medio
Prima dell’inizio della guerra civile in Siria, i giovani
jihadisti appartenevano solo eccezionalmente al ceto medio, ma da allora
accanto ai giovani di periferia costituiscono una parte significativa di quanti
sono accorsi in Siria per mettersi al servizio dello Stato Islamico o di altri
gruppi jihadisti come il Fronte della Vittoria (Jihat al Nusra), legato ad
al-Qaida. Secondo le statistiche disponibili, il numero di giovani europei
andati in Siria è tra i 2mila e i 4mila, ma avrebbe potuto essere maggiore se
alcuni Paesi europei non avessero adottato provvedimenti restrittivi, impedendo
che diversi tentativi di recarvisi (in particolare attraverso la Turchia)
fossero coronati dal successo.
Questi giovani, spesso adulti eterni adolescenti, vanno a
rinforzare l’esercito di riserva del jihad, convertendosi all’islam radicale da
varie religioni: cristiani disillusi alla ricerca di sensazioni forti che non
trovano nel cattolicesimo istituzionale; ebrei secolarizzati stanchi della loro
ebraicità senza radici religiose; giovani provenienti da famiglie francesi
convertite al buddismo che cercano un’identità forte al servizio della guerra
santa, in opposizione alla versione europea pacifista del buddismo, ecc. A
differenza dei jihadisti di periferia, questi giovani non nutrono odio per la
società, non hanno patito l’ostracismo sperimentato dai primi e non vivono il
dramma del vittimismo che dipinge la vita a tinte fosche.
Hanno invece un problema con l’autorità e le regole.
L’autorità è stata annacquata dalla famiglia allargata e il diritto dei minori
ha creato la figura del “preadulto”, che può essere allo stesso tempo un eterno
adolescente. La combinazione della logica dei diritti, della dispersione
dell’autorità tra diverse figure genitoriali e della perdita di rigore delle
regole, anche quelle statali, nella società, fa sì che vi sia un’attesa di
normatività. Una minoranza di questi giovani soffre per la presenza vacua di
molteplici figure con ruoli di responsabilità senza che vi sia un’autorità
chiara e definita, e cercano una determinazione esplicita dei confini tra ciò
che è permesso e ciò che è vietato. Questa richiesta trova risposta nelle norme
islamiste, che propongono una visione senza sfumature, dove ciò che è proibito
è presentato in modo netto. L’islamismo radicale – consentendo di coniugare la
dimensione gioiosa e ludica e la serietà mortale della fede jihadista – dà ai
giovani al contempo la sensazione di osservare regole intangibili e di essere
coloro che le impongono in tutto il mondo, invertendo così i ruoli tra
adolescenti e adulti ed essendo, in definitiva, coloro che istituiscono le
regole sacre e le impongono agli altri, pena la “guerra santa”. (...)
Accanto alla sacralizzazione delle regole, vi è anche una
ricerca di giustizia per la Siria, dove un regime sanguinario ha ucciso 200mila
persone e costretto diversi milioni di cittadini ad andare in esilio nei Paesi
vicini. Se l’Occidente si mostra impotente di fronte a questa dittatura, questi
giovani, armati di una fede ingenua, intendono lottare contro il male in nome
di un jihadismo di cui non percepiscono l’aspetto mostruoso e disumanizzante.
Il passaggio può essere graduale, come nel caso di alcuni membri della banda di
Roubaix, come Christophe Caze, che erano impegnati a livello umanitario prima
di divenire islamici fondamentalisti.
L’adesione di questi giovani del ceto medio al jihadismo
esportato in Siria solleva interrogativi riguardo al malessere di una gioventù
che soffre il declino della politica. Per i giovani delle periferie avere un
atteggiamento che non tiene conto del livello politico è normale: il
ripiegamento su di sé, la chiusura nel ghetto o nella violenza, sia essa
criminale o sacra (jihadismo), sono atteggiamenti che si situano nel
pre-politico o al di là della politica. Nei ceti medi la
politica, intesa come progetto collettivo di speranza, ha subito una grave
crisi dopo gli anni ’80 e non costituisce più un fondamento dell’identità delle
generazioni successive, che si rivolgono di conseguenza al jihadismo. (...)
La presenza femminile
nel jihadismo
Dall’inizio della guerra civile in Siria, si assiste in
Europa, e in particolare in Francia, all’emergere di un nuovo tipo di jihadismo
che ha per protagoniste in gran parte ragazze adolescenti o poco più, accanto a
giovani donne di venti o trent’anni. Appartengono principalmente al ceto medio
e la maggior parte sono convertite dal cristianesimo, dall’ebraismo (in alcuni
casi), da famiglie buddiste, agnostiche o atee.
La loro scelta di partire non è dettata principalmente
dall’odio verso la società, ma da altre motivazioni. In primo luogo una ragione
“umanitaria”: i fratelli nella fede (i sunniti) avrebbero bisogno di aiuto per
far fronte a un potere eretico. Vi è poi un’immagine idealizzata dell’uomo per
una gioventù disillusa rispetto al femminismo delle madri o delle nonne:
l’ideale della virilità si concretizza in un uomo che si espone alla morte e,
in questo confronto, si mostra virile, onesto e sincero. Questi tre aggettivi
danno un senso all’idea del “marito ideale”. Tale uomo ideale sarebbe, innanzi
tutto, in grado di restaurare l’immagine “virile”, compromessa a causa
dell’evoluzione della società in chiave di parità tra i sessi. Sarebbe “serio”,
perché la lotta contro il nemico testimonia la sua capacità di assumere un
impegno definitivo, a differenza di quei giovani che appaiono immaturi e
indecisi agli occhi di queste ragazze che sembrano aver detronizzato l’immagine
del padre. Infine, poiché sono pronti anche a morire per il loro ideale, questi
uomini sarebbero “sinceri” con le loro mogli, dato che la loro affidabilità è
commisurata alla loro autenticità sul campo di battaglia.
Questo tipo di uomo, incarnazione delle virtù cardinali
della veridicità, corrisponderebbe all’ideale di marito da sposare per
sottrarsi al malessere dell’instabilità e della fragilità crescente che
caratterizza le coppie moderne. Spesso provenienti da famiglie francesi
allargate, dove hanno sperimentato la precarietà dei legami coniugali dei loro
genitori e vissuto il livellamento della condizione maschile nel divorzio,
queste giovani donne rifiutano l’immagine dell’uomo e della donna prevalente
nella società moderna, sostituendola con una forma di utopia antropologica dove
la fiducia e la sincerità assoluta si coniugano con una “buona disuguaglianza”.
(...)