Un luogo comune apparentemente ragionevole recita: “Aiutiamoli a casa loro”. In realtà, si vorrebbe che si aiutassero da soli, senza scomodare noi. Nel caso degli immigrati, questo slogan non tiene colto della domanda del loro lavoro (2,3 milioni di occupati regolari in Italia, secondo l’ISTAT). Nel caso dei rifugiati potrebbe avere più senso, a patto però che una casa in cui stare o tornare l’abbiano. E che non sia minata o sotto attacco.
Sono reduce da un viaggio a Erbil, Nord Iraq, capitale del Kurdistan, ospite dell’ONG Terre des Hommes Italia: ho visto da vicino che cosa significa “accoglierli a casa loro”, o almeno nei paraggi. La regione accoglie 225mila rifugiati siriani e circa 900mila sfollati interni dalle zone dell’Iraq cadute nelle mani dell’Isis. Oggi sta affrontando l’emergenza degli arrivi da Mosul, dove si continua a combattere.
Già questi numeri dovrebbero indurre qualche cautela quando in Europa ci si lamenta di un fardello insopportabile di rifugiati. Ma soprattutto è sbagliato pensare che da quelle parti per misteriose ragioni l’accoglienza sia indolore. La maggioranza sono stati accolti in città, grazie alle proprie risorse e alle reti di parentela, ma sono andati a ingrossare l’armata dei lavoratori precari, informali, temporanei. Ora non possono più neanche metterci piede: sono fermati a 70-80 chilometri da Erbil, e ospitati in sovraffollati campi profughi, fatti di container e più spesso di semplici tende.
Lo standard è di un servizio igienico ogni 20 persone nei campi “normali” e di uno ogni 40 in quelli di emergenza. Si cerca di assicurare la scolarizzazione dei minori, che sono circa la metà dei profughi e hanno già perso anni di scuola, ma in condizioni in cui lo studio è un lusso pressoché impraticabile. Cresce il numero dei minori non accompagnati, maschi adolescenti che l’esercito cerca di reclutare.
I padri non trovano lavoro e le autorità cercano di spingerli al ritorno: anche lì vorrebbero che si aiutassero a casa loro. Il problema è che la casa molte volte non c’è più, è stata saccheggiata e data alle fiamme, mentre strade e campi sono minati, le infrastrutture distrutte, l’economia azzerata. Chi ci sta provando affronta prove drammatiche, una vita peggiore di quella dei campi profughi. Il ritorno non è una soluzione per l’oggi, ma una sfida per il domani. E una sfida che riguarda tutti, e non solo loro.